Linea d'ombra - anno V - n. 21 - novembre 1987

SAGGI/CORONA molto fiuto costui ha messo in piedi una collana ottimamente distribuita, nella quale riesce a pubblicare, un anno dopo l'edizione rilegata Knopf (1983), Cathedral di Raymond Carver (Cattedrale, Mondadori, 1984; Serra e Riva, 1987), e in prima assoluta i romanzi di un vecchio compagno di scuola: Jay Mclnerney (Bright Lights, Big City, 1984; Le mille luci di New York, Bompiani, 1986; e Ransom, 1985; Riscatto, Bompiani, 1987). I fotografi mondani ritraggono Fisketjon e la sua giovane stella in compagnia del comune amico Morgan Entrekin, patron di Bret Easton Ellis (Less than Zero, 1985; Meno di zero, Pironti, 1986), mentre sorseggiano un cocktail da Nell's, il club più "in" del momento ("The New York Times Magazine", 26 aprile 1987). Alla Vintage Contemporaries fa concorrenza la collana, pure tascabile, Contemporary American Fiction, edita nientemeno che dalla Penguin. Qui escono in seconda battuta Amy Hempel e Bret Easton Ellis dopo la prima edizione rilegata presso, rispettivamente, Knopf e Simon & Schuster. Infine gli scrittori americani, giovani e meno giovani, sono concretamente incoraggiati nel loro lavoro da borse di studio concesse da varie fondazioni e anche da università. Alcuni esempi: Mclnerney ha potuto dedicarsi alla stesura di Ransom con l'aiuto della Syracuse University (dove Carver teneva corsi di "creative writing") e di una Cornelia Carhant Ward Fellship in Creative Writing; Leavitt, per The Lost Language of Cranes, è stato appoggiato dalla MacDowell Colony e nientemeno che dal National Endowment for the Arts, come Tama Janowitz. Il genere "racconto", che in America ha ovviamente una tradizione illustre, a partire proprio da quell'Edgar Allan Poe che aveva teorizzato l'eccellenza della forma breve (poesia, racconto) su quella lunga (poema, romanzo), conosce dunque una nuova fioritura, evidentemente favorita da circostanze propizie sia alla produzione sia al consumo. Ma anche su altro terreno osserviamo una singolare convergenza fra produttori e consumatori, là dove uno dei massimi cultori del genere, Carver, afferma di essersi dedicato al racconto per mancanza di tempo e di concentrazione, assillato dai compiti inerenti al ruolo di padre di famiglia. In Fires Carver ci dice come, un sabato pomeriggio di una ventina d'anni fa, in un'affollata lavanderia a gettone di Iowa City, trascorsa più di mezz'ora nella vana attesa di una macchina libera che gli asciugasse i suoi cinque o sei carichi di biancheria per lo più appartenente ai figli piccoli, egli abbia percepito "in quel momento, nel mezzo di quella frustrazione impotente che quasi mi aveva ridotto alle lacrime, che nulla - e, gente mia, dico nulla - di quel che poteva capitarmi in questa vita sarebbe stato neppure lontanamente paragonabile per importanza al fatto di avere due figli. E che li avrei sempre avuti e mi sarei sempre trovato in questa situazione di ineludibile responsabilità e di stravolgimento permanente ... Durante questi anni feroci di allevamento dei figli e di lavori saltuari non avevo quasi mai il tempo, e la forza, di pensare a un lavoro che richiedesse tanto tempo ... in quei giorni mi resi conto che se potevo ficcarci dentro una o due ore per me stesso, dopo il lavoro e la famiglia, c'era da fare i salti" (Fires, in Fires pp. 23-26). Se questo accade ad uno scrittore, altrettanto può accadere a molti lettori. E allorà un racconto è forse ciò che si riesce a leggere con minore difficoltà sul treno dei commuters, o mentre si attende, a tarda sera, uno dei rari convogli della metropolitana, o durante il lunch solitario consumato in una cafeteria o alla lavanderia a gettone, insomma nei ritagli di una giornata suddivisa in una miriade di impegni, incombenze, distrazioni, richiami. Il racconto è anche una forma narrativa che non presume di dar fondo al reale, di descriverlo compiutamente. Ancora Carver ci dice che, in quel difficile periodo della sua vita, riusciva a scrivere solo racconti e poesie perché il romanzo richiede "un mondo che liotecaGino Bianco abbia senso... che stia fermo in un posto almeno per un pò" (id., p. 26). E dunque, in un momento storico così disgregato e frammentario, il racconto racchiude forse il massimo di verità che sappiamo cogliere. Ma, ridiscendendodal filosoficoal materiale, il racconto, oggi, può essere redditizio.Dal suo libro d'esordio, l'ormai celebre raccolta Family Dancing (1984, Ballo di famiglia, Mondadori, 1986), David Leavitt ha ricavato abbastanza da permettersi ('.acquisto di una casa di campagna non lontana dall'oceano a East Hampton, località fra le più ricercate di Long lsland, a due ore di macchina da New York. Non lo nasconde, non se ne vergogna, e perché dovrebbe? È bravo, è "professional", perché non dovrebbe guadagnare? Basta il successo di un libro onesto per proclamarlo, come si è fatto frettolosamente e, ritengo, con una punta di stizza, "portavoce degli yuppies"? Non credo. Qualche sospetto, semmai, si potrebbe nutrirlo nei confronti di Brighi Lights di Mclnerney, da cui sarà tratto un film con Tom Cruise, o di Bret Easton Ellis, il cui astuto Less than Zero darà pure luogo a un film,prevedibilmentepruriginoso. Ma non è questo il punto. Mi pare piuttosto che non funzioni più, nel nostro contesto, l'idea romantica del geniomaledetto, della necessaria inconciliabilità tra Artista e pubblico - borghesee dunque filisteo. Non ci aiuta ricorrere alle categorie esecrativeche, dalla prima bohème ottocentesca attraverso la avanguardienovecenteschefino ad Adorno, hanno equiparato il successo di pubblicoal commercio col demonio; né possiamo fingere che esista un indefinito progresso delle arti rigorosamente delimitato dai recinti delle avanguardieprogrammaticamente sperimentali. Il "grande pubblico" di oggi è molto vario e articolato, provvisto, grazie alla crescente educazionedi massa (orrore ... ) raggiunta attraverso la scuola (pur scassata com'è) e i mass media (esecrazione ... ) di un minimo (certo, un minimo)di cultura e di discernimento. Dentro a questa massa fluttuante coesistonoe talvolta si sovrappongono segmenti, aree, settori differenziati. C'è per esempioil popolo dei giovani, diciamo dai quindici ai trentatrentacinque anni, una vasta fascia sociale che, per la prima volta nella storia umana, possiede, crea, usa (ed è usata da) un linguaggio comune, universale,quello del rock, che arriva ormai fino a Berlino Est, a Mosca e in Cina. E intorno al rock si muovono la videomusic, le cassette, i film, i videoclip, i concerti, le discoteche, la moda, il look, ma anche libri, giornalie riviste. La caratteristica nuova di questa rete comunicativa prevalentementeaudiovisiva è che non richiede né traduzioni né mediazioni, e funziona dappertutto in modo istantaneo. L'ultimo album del dio del momento (mettiamo Prince) è conosciuto, ascoltato, comperato, ballato, usato nel medesimo momento a Minneapolis (patria, come ognun sa, del "folletto nero") e a Tokyo. E i testi dei vari pezzisono da tutti conosciuti a memoria; in inglese naturalmente, e cantati collettivamente quando il nume concede la propria epifania nel rito, sacroe profano insieme, del concerto. Ma il vasto popolo dei giovani oggi non consuma solo rock e moda, né in essi soltanto si identifica.Una sua parte, la meno proletaria, la più metropolitana, frequenta anche le sale da concerto tradizionali, persino l'o- - pera, va alle mostre, al cinema, compra libri, giornali e riviste e fra queste ultime ne trova alcunef'Vogue", "Donna", "Per lui", "Lei", "Cento cose", "Moda", "Amica", "Rockstar", ecc.) che, partendo magari dall'area della moda e déi consumi "di immagine", informano anche su ciò cheè trendy in altri campi: cinema, spettacolo, dischi, libri. E qui arriviamo al capolinea. Attraverso brevissime e reiterate segnalazioni, analogheai "passaggi" dei dischi, dei videoclip musicali e della pubblicità alla radio e alla televisione, il sofisticato pubblico giovanile metropolitano o aspirante tale, che non segue certo le pagine letterarie dei quotidiani o le riviste per addetti ai lavori, viene

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