SAGGI/AMERY tieri di un suo tormento autodistruttivo. Il suo Padrenostro avrebbe dovuto conseguentemente concludersi con le parole:" ... non perdonare mai i miei peccati e colpiscimi con ogni sorta di mali ora e nell'ora della mia morte. Amen". Dal 1938 soffrì ininterrottamente, per anni, di emicranie strazianti - il dolore per eccellenza di Adrian Leverkuhn, ma non mi risulta si sia mai sottoposta a una visita medica approfondita o abbia perlomeno fatto uso di analgesici. Soprattutto si impose l'obbligo di svolgere lavori fisici, per i quali aveva all'incirca la stessa inclinazione che per il balletto. Ciò fu senza dubbio eroico, anche se un paio di osservazioni intese a contenere il mito di Simone Weil si rendono opportune. Il suo lavoro come operaio, dapprima in fabbrica quindi in campagna, durò tutt'insieme sei mesi. Fu, perché lei evidentemente così volle, uno scacco, un fallimento: come insegnante, rivoluzionaria, operaia, persino come cristiana. Il suo cristianesimo così manicheo da spingersi all'eresia fu un'incomparabile sofferenza per Dio, non un riscatto. La Weil stessa, ha descritto la sostanza della sua teologia in una cupa riflessione sulla filosofia: "Il metodo proprio della filosofia", scrisse nel libro La connaissance surnaturelle,che già nel titolo conteneva una contraddizione insolubile, "consiste nel considerare i problemi senza soluzione e osservarli per anni instancabilmente, in attesa senza speranza." In questo modo si privò - così come dell'alimentazione adeguata e delle piccole gioie quotidiane - di ogni positiva prestazione intellettuale. Questa cristiana passionale, che ricordava Kierkegaard, non si concesse neppure il battesimo, in parte perché si considerava indegna dei sacramenti, in parte perché nella chiesa, piuttosto del mistico corpo di Cristo vedeva il male dell' Ecclesia triumphans. Instancabilmente alla ricerca della "purezza assoluta, della bellezza assoluta, della giustizia assoluta", sapendole irraggiungibili, in realtà perse di vista il giusto, il buono, il bello, in quanto mai perfetti. Effettivamente essa "non apparteneva a questo mondo". Il suo manicheismo teologico, le cui radici possono trovare spiegazioni solo nel suo stato psichico, pervase profondamente persino i suoi saggi dedicati ad argomenti del tutto profani. Nei suoi scritti sulla Condizione operaia vi sono considerazioni acute, nuove, anche se non propriamente sconvolgenti, sull'alienazione delle operaie alla · catena di montaggio. Omise, perché non le visse, quelle compensazioni minime, che permettevano alle compagne di lavoro la sopportazione: il piacere del ballo il sabato, le quattro chiacchiere nelle pause di lavoro, le storie d'amore. Lei, sposa di Dio, fu casta fino al punto da provare repulsione per qualsiasi contatto fisico affettuoso, e ciò di certo non solo perché il suo aspetto e la sua faccia triste da intellettuale ebrea non attiravano folle di pretendenti. Si sentiva un rifiuto, una "schiava", come testualmente ebbe a scrivere. Nel contempo, però si viveva anche come genio dell'assoluto. Se Simone Weil fu realmente un caso clinico - tesi che si sta rafforzando - la dignosi dovrebbe parlare di quadro megalomanico-autodistrut5_ ibliotecaGino Bianco Simone Weil nel 1942. tivo. ·,,so con assoluta chiarezza che ciò che faccio" - dice nella Connaissance surnaturelle - "non è il bene, in quanto ciò che faccio non può essere bene nel momento in cui lo realizzo. Tutto ciò che si compie, in qualsiasi momento, è il male, un male insopportevole ... " Tracciati che portano dall' "io" al "si": dove il suo "sé" miserabile, viene fustigato in un processo morboso di autodistruzione; non appena utilizza il "si" e quindi coinvolge gli altri, si scaglia come giudice sugli uomini, si divinizza. Micromania e megalomania giungono assurdamente a coesistere. Qualora sia possibile usare la categoria dell'assurdo, in senso sia teologico che filosofico, non c'è figura che vi si presti più precisamente di Simone Weil. Assurda non fu solo la sua fallimentare attività di insegnante, il suo tentativo di entrare nel mondo del lavoro, la sua ricerca del dio ascondito, assurdo fu anche il suo comportamento nel disordine dell'epoca. Fu radicalmente pacifista, quando qualsiasi ragazzino avrebbe potuto rendersi conto della necessità di eliminare a tutti i costi Hitler e il suo Reich di vergogna. Con una lettera fra l'altro straordinaria e ammirevole per l'audacia, espresse la sua indignazione al commissario per la questione ebraica del regime di Vichy, Xavier Vallat, ma non come l'ebrea che di fatto era e come colei che gli sguardi altrui volevano dopo aver già pronunciato la sentenza, bensì richiamandosi, in modo insieme ingenuo ed eroico per il periodo storico, al fatto che mai aveva messo piede in una sinagoga e che le sue radici affondavano nella cultura greco-cristiana. Dopo aver rinunciato - à la fin du compte - al pacifismo ed essere diventata una risoluta patriota volle rimanere in Francia. Ma, nel giugno del 1942, all'ultimo minuto, emigrò con i genitori negli Stati Uniti, non però per rimanerci, bensì per raggiungere l'Inghilterra e da qui ritornare in Francia, piccola deviazione che, con un pò di senno, avrebbe potuto risparmiarsi. Ma che senso aveva la sua ragione? "Il Signore ci ha fatti liberi e intelligenti ... affinché investissimo in Lui la nostra volontà e la nostra intelligenza ... "(Cahiers III). Di fatto immolò al suo Signore vita e ragione sull'altare sacrificale. In ciò ebbe spesso come si dice più fortuna che cervello: le autorità la consideravano un caso privo di interesse! Al punto che quando un giorno lasciò cadere sulla strada, per pura goffaggine una valigia con documenti della Resistenza, che si sparsero tutt'intorno, sfortuna e martirio non vollero entrare in gioco. Era un caso privo di importanza anche per le "Forze libere francesi" di Londra, dove arrivò proveniente
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