SATURNOO DELLAMISANTROPIA INCONTROCONCESAREGARBOLI a cura di Luca Coppola e Giovanni Dellerchi "Ognuno ha i suoi classici. O, forse, ciascuno ha un 'suo' classico: un compagno di veglia, un segreto e inseparabile interlocutore. Non un maestro, ma un alleato." Con queste parole Cesare Garbo/i apre laprefazione al Tartufo, laprima delle sue traduzioni molièriane, che è del 1973. Non si saprebbe se considerarle, queste parole, una dichiarazione di intenti critici o, più semplicemente, una dichiarazioned'amore. Probabilmente una cosa non esclude l'altra. Sta di fatto che, da allora in poi, non soltanto l'attività saggistica di Garbo/i, ma anche le sue scelte di vita ci riportano costantemente a questa alleanza con Molière. Versiliese,formatosi alla scuola di Natalino Sapegno, Garbo/i divenne sul finire degli anni Sessanta quel che si suol definire un docente e un critico "di punta". È del 1969 la pubblicazione de La stanza separata, nel quale sono raccolti i suoi interventi militanti su/l'attualità letteraria. Poi arrivò l'incontro fatale con Molière, e man mano che Garbo/i venne producendo le proprie memorabili traduzioni del 'suo' classico, è probabile che si siafatto strada in lui un sempre maggior senso di disagio verso l'industria culturale. Voltate le spalle a/l'attualità, prese a remare controcorrente, facendo rotta verso la meditazione, il silenzio, l'isolamento. Oggi questo "rematore solitario" risiede, più che mai appartato, nell'entroterra di Camaiore. Appartato, ma non solo: nella casa di campagna vicino a un mulino, Garbo/i convive amabilmente col rumore dell'acqua e col senso del passato. Difficile immaginare una "misantropia" più serena, un'armonia più amabile con la propria nevrosi. Da questo buen retiro nei luoghi della sua infanzia Garbo/i si muove malvolentieri e lavora a/acremente, a riflettori spenti. L'ultima sua fatica è stata una nuova traduzione del Misantropo, commissionatagli dall'amico Carlo Cecchi. In precedenza erano usciti due libri, dedicati rispettivamente a Sandro Penna e a Giovanni Pascoli. Due poeti nei quali è facile trovare una comune predilezione per gli "scrittoricavie". La metafora patologica percorre con ossessività il pensiero di Garbo/i, e anche questa strada ci riconduce a Molière. Nella prefazione a li malato immaginario egli scrisse che "vivere è essere malati". E ancora, nel ritratto dedicato a quel "sano immaginario" che fu Antonio Delfini, scrittore a lui caro e misconosciuto ai più, diagnosticò due grandi categorie letterarie: scrittori-medici e serittori-cavie. Una distinzione netta, ovviamente, non si può fare. Scrittorimedici sono quegli scrittori che organizzano consapevolmente e premeditatamente, anche con risultati eccellenti, la loro malinconia, la loro bile nera, i loro impulsi, il loro demonio, i loro disturbi - dato e concesso che al fondo di ogni esperienza letteraria ci sia un demonio, una malinconia e una malattia, un "furore", chiamiamolo così. .. Non una malattia in senso patologico, ma un bisogno di qualcosa di più rispetto a un'insoddisfazione dell'esperienza fisiologica esistenziale. Allora, in questo caso, lo scrittore che riesce a organizzare le proprie viscere e ad organizzarsi in un libro è uno scrittore-medico, uno ibliotecaGino Bianco scrittore che fa due parti. È portatore della propria malattia, del proprio demonio, e ne è l'esorcista; è colui che soffre di una malattia e la diagnostica. E molto spesso è un grande scrittore. Thomas Mann, la Woolf, James, Svevo, sono scrittorimedici; André Gide è lo scrittore-medico per eccellenza. Ci sono poi scrittori-cavie, coloro che vengono trascinati · dal proprio demonio, senza esserne in qualche modo padroni, né consapevoli. Questi scrittori soffrono la loro esperienza e ne sono le vittime: Delfini è uno scrittore-cavia. Essere scrittoricavie può portare al capolavoro, ma non nel senso della strutturazione del capolavoro: a capolavori d'intuizione, d'illuminazione. Sono molto spesso poeti, gli scrittori-cavia, giacché il padreterno ha dato la gabbia, il ritmo, il verso, la musica, le rime, l'accento, proprio come possibilità di trasformare l'esser cavia in una funzione. La poesia, in sostanza, permette allo scrittore-cavia di manifestarsi con delle illuminazioni. L'organizzazione viene incendiata, improvvisamente, perché è già nell'illuminazione stessa: lo si vede in Sandro Penna. In questi casi la struttura è talmente trasparente che non appartiene al razionale, al procedimento intellettuale. Esistono poi scrittori che sono medici e cavie insieme, simultaneamente. Proust è un esempio clamoroso di scrittoremedico e scrittore-cavia; in Kafka sembra quasi che il medico e la cavia si guardino ad occhi sbarrati, reciprocamente: il medico vede la cavia mentre viene vivisezionata e si trasforma nella cavia stessa - basta pensare alla Metamorfosi ... Dalla finestra scroscia un temporale primaverile; il discorso si sposta su una frase di Delfini, misteriosa e allusiva, "La vera fine del mondo è che il mondo non finirà mai"? Io credo che per capire l'asserzione di Delfini ci si debba rifare a un'antichissima concezione neo-platonica, gnostica, e cioè all'idea che tutta la realtà sia come un sistema tenebroso dal quale si esce attraverso una progressiva salita verso la liberazione. La fine del mondo, che è una catastrofe, in questo caso viene connotata da Delfini, in un lampo del pensiero e dell'intuizione, in senso positivo, come un effettiva liberazione, come l'uscita dal mondo verso la luce. Come l'ingresso in un mondo che non è più tenebra, imbroglio, inganno, sofferenza, povertà, infermità, malattia, angoscia - ma è il luogo dove si viene liberati dal mondo. A quel punto però, nella subitaneità del pensiero, la fine del mondo si riconnota vertiginosamente e precipitòsamente di un nuovo senso di catastrofe, perché quella liberazione che è la fine del mondo in realtà non avverrà mai. Saremo sempre carnali, prigionieri della sofferenza. E in realtà è così. Penso che Delfini abbia visto giusto, ché l'uscire dal mondo è sempre rientrarci dentro, l'imbroglio di vivere non finisce mai .. : non finisce neppure con la morte. La realtà è un riciclaggio continuo delle stesse cose, siamo fatti sempre delle stesse cose: la vita eterna esiste, l'aldilà esiste, ma esse sono qui, per usare una metafora ... Quello che gli uomini hanno inventato per uscire dal mondo è l'arte. Nel momento in cui si prova l'esperienza della liberazione, la si prova davvero. Davanti alla flagellazione, il tra51
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