STORIE/Z:ANZ:OTIO "... avvertivamo la mente che continuava, riflesso di nevi e di acque perdute, a_yvertivamo, anche se non per noi, il gusto di un debole, desolato trionfo sulla morte." di noi a queste sconosciutltcreature. Ormai lontane in fondo ai prati, a nulla se non agli erranti ruscelli avrebbero finto un'instabile attenzione, il loro sguardo vero non si sarebbe rivelato a nessuno. Quegli occhi già pietosi, quelle bocche vivaci, quelle tenere membra si sarebbero sempre più chiuse in marmorei dinieghi: nuove figlie di Ade esse avrebbero indolentemente respinto la nostra devozione febbrile, e senza salutare, senza volgersi, sarebbero sparite dietro le quinte delle selve. Intanto, col passare del tempo, il sole pendeva pericolante all'orlo dei cieli e sembrava talvolta, stranamente basso sullo orizzonte, confidarsi alla terra sfatta e muschiosa. Venivano le pioggie e si allargavano, le lontananze generavano nebbie. E dopo le acquate lunghe e viscide il sole ritornava, ma come emaciato da una lotta vana, trasfigurato da un'ingiusta tortura e da un 'ingiusta sconfitta. Le valli, allora, si popolavano di laghetti appena nati, e la luce filtrando tra le ultime fronde vi rifletteva stancamente la sua rovina. Ritirarsi e nascondersi; dormire. Le tenebre sempre più rigogliose, le profondissime notti, alimentavano astri selvaggiamente splendidi, che ci portavano il sonno, un unico sonno che voleva fasciarci e insinuarsi col gelo nelle nostre esili fibre, e che tendeva a far corpo con la nostra sostanza. Ma proprio allora il denso, torpido frutto di questo sopore era bacato da un filo di limpidezza inaspettata, che avrebbe voluto come esserci guida a qualche cosa. Proprio allora, giunta da ignoti spazi, risuonava nelle nostre menti una voce blanda e cara, che sembrava volerci insegnare ad accettare serenamente, anzi ad amare, la decadenza dell'essere; una voce di ninfa, rimasta nostra sorella e bambina, che tentava di trasformare in casta voluttà il nostro abbandono. Tra gli ultimi sogni dell'oro terrestre, quasi sulla soglia delle nevi, quella voce cantava dall'autunno, colore della tristezza (o della speranza?), ripeteva in ogni casa l'umile elegia della rassegnazione del cuore davanti al mondo ormai naufragato in un azzurro glaciale. Eppure in quella bocca invisibile brillava il sale di una benigna, accorata ironia. L'ebbrezza del dissolvimento oltrepassava il segno e quell'anima, mentre si offriva tutta all'abbraccio mortale di Ade, sembrava segretamente sorriderne: ma infine senza credere troppo al suo stesso sorriso. Gioia appena accennata, che in ogni caso riguardava altri, non noi, vittime designate. Non per la ninfa contava, né era per noi questo pegno solare; tutti dovevamo cedere fino all'estremo, diventare sfacelo ed oblio di ogni cosa, anche del volto più amato. Ma mentre cedevamo, perfino nell'incubo invernale, fra le struggenti carezze delle ombre, tra le lusinghe dell'Erebo, sentivamo nell'eco di quella voce l'ago della nostra mente, l'acuta spina della nostra volontà di esistere, che durava, anche senza appartenerci del tutto, in un suo minimo e quasi acre splendore; avvertivamo la mente che continuava, riflesso di nevi e di acque perdute, avvertivamo, anche se non per noi, il gusto di un debole, desolato trionfo sulla morte. ibliotecaGino Bianco Vita di un diario Assurda fatica quella di continuare a trascrivere la mia vita, pur essendo giunto a un'età così avanzata, e completamente solo al mondo. Vecchio di migliaia e migliaia di giornate, quando le tocco a caso - pagine minuziose e fedeli - mi coglie un nuovo smarrimento: non per quella muta attestazione di un tempo che non è più da vivere, ma perché sento l'impossibilità di riprendere il mio scritto per leggerlo tutto, ripetendo così da capo a fondo, posto che lo volessi, la mia esistenza. Veramente ho pensato ancora ad un'orgia di tal fatta, a chiudermi magari per un intero anno a centellinare la mia opera, a gustarmela proprio perché non sia stata inutile; ma sempre me ne sono sentito mancare il coraggio, anche per una considerazione che mi trovavo spinto a fare. Non avrei potuto praticamente troncare la mia vita, cessare dicostruire il passato, per propormi sempre nuovamente quello che avessi accumulato fino al momento di questa mia decisione? Non avrei potuto perennemente rileggere la storia della mia vita? Sarebbe stata una giusta via per sottrarsi, in un certo senso, al destino, nella misura in cui la tetra monotonia dei miei ultimi anni avesse continuato la sua strada, senza imprevedibili cataclismi. Io mi sarei ridotto a mano a mano al passato, identificandomi con la sua apparente immobilità; io padrone di una palingenesi chiusa tra le pagine dei miei quaderni in un ritmo che non si sarebbe più spezzato. E in tal modo sarei stato, se non l'artefice vero e proprio della mia esistenza, colui che l'avrebbe completata e definita chiudendola come in una cornice. Mi sarei imbalsamato e munito d'incorruttibili organi, il mio viaggio, da rettilineo, sarebbe divenuto circolare: e al fondo mi sarebbero ogni volta riapparse le coste del noto, l'Europa di un globo già tutto esplorato, privo di ogni sorpresa sia triste che gioiosa, ma tutto in mio pieno dominio. E il vero giorno di una morte che avesse per me un senso (accenno a quella morte di cui si può scrivere e parlare qui in terra, da esseri umani, non all'altra innominabile tangente al nostro chiuso esistere, al corpo di cui questa è soltanto l'ombra), il vero mio giorno fatale sarebbe stato quello dell'inizio della lettura; e forse il mio corpo avrebbe imparato a dissolversi insensibilmente nel corso della lettura stessa, estasiato da una progressiva, beata paralisi. Ma tutti questi evidentemente non sono che inutili discorsi, ironiche proposte di una mente che vorrebbe, e non può, illudersi. Mi è chiarissimo infatti che in ogni caso il mio lungo lavoro è stato vano, vedo che nonostante lo sforzo aspro e quasi maniaco del diario, la mia vita mi è stata rubata con implacabile meticolosità, mi trovo ormai di fronte, nel diario, la contraffazione più che l'immagine della mia esistenza. Troppo addentro io vedo nel tessuto di segni del mio diario, troppe cose ho scoperto sulla sua natura, forse è vero che esso vive di una vita propria, che non è mai veramente coincisa con la mia. Vedo in quel tessuto: e aprendo talvolta i miei quaderni, specialmente quelli della mia infanzia e giovinezza, cioè i più remoti nel tempo, e rileggendo le mie ridi49
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