Linea d'ombra - anno V - n. 21 - novembre 1987

STORIE/ZANZOffO dunque, il bel naso della zitella, più i bei capelli della signora, più i begli occhi della bisavola, più l'alta statura del padron di casa si son dati la mano per riapparire in questo fiore, certo incomparabile per natura, che si chiama Carla, o addirittura per costituirlo. Perché questo io avverto già crudamente: che i Dornus, con quel tatto che li contraddistingue, non mancheranno, di fronte a me, di rivendicarti, Carla, così, al minuto, pezzo per pezzo. Ognuno di quei signori uscirà sulla porta della sua lessa tana, del suo palazzo-cialtrone a mostrarmi disciolta nella moltitudine (certo peggiore dello sfacelo che attende i corpi dopo la morte) questa qui, che ho vivente davanti a me e che io vorrei più originaria della stessa luce. Io dovrò prendere contatto col fattore Dornus, col possidente Dornus, affrontarli per imparare come s'interessino alle oscillazioni del mercato dei bozzoli o dei polli, possibilmente bere il liquore di casa, ammuffito apposta per gli ospiti. Io dovrò all'improvviso trovarmi tra i piedi quel fanciullo dalla testa talmente grossa da farmi sembrare il suo collo un gambo, ma un gambo capace di contraffare l'esile giglio del collo di Carla; io vedrò la bocca rossa e amorosa di lei divenire tumida e svergognata, pur conservando i tratti fondamentali, in una lontana parente. No, Carla, devi capirmi, non puoi sottomettermi a una simile prova. Oggi mi è capitata la febbre, ma domani, non si sa mai, tu, in Felsa, vorresti presentarmi (ne sento già a fiuto l'esistenza nel buio del mio non sapere) una tua zia che ha i tuoi stessi occhi, ma certo, in quel volto, non più espressivo che se composti del materiale di un mattone. Una tua cugina si permetterà di offrirmi come un'eco del tuo naso, ma invillanito dallo storico centimetro in più, avrà una voce violentissima e parlerà bleso, nella convinzione di manifestare così un innato spirito aristocratico. E se, guai, io dovessi vedere tra i mille rampolli dei Dornus (tutto è possibile, purtroppo) una fanciulletta che somigliasse in assoluto a te, la tua copia eseguita a perfetta imitazione, con la stessa tua vocetta di rugiada (sapida e colorita bollicina di sapone uscita alla luce per ultima) se le scoprissi le tue movenze, il tuo sguardo screziato del solito agretto, le tue stesse mani leggere e pure, allora sarebbe infinitamente peggio perché la tua insostituibilità sarebbe finita e io comincerei a sentirti come una merce che si può fabbricare in serie purché se ne possieda la formula. E, ahimé, la formula la possederebbe proprio il sangue, dico, il bruto liquido sciropposo che scorre nelle vene dei Dornus, del fattore Dornus, del sensale Dornus. Lasciami qui e tienimi compagnia, ti prego; e se sei stanca va pure, ma permettimi di sognarti, perché tu sai che con la febbre si ama di più. Intanto penserò anche ai retesti da presentarti domani e dopodomani. 'bliotecaGino Bianco Idea dell'autunno Dopo l'equinozio, quando rivedevamo il sole sorgere sulle selve ormai invecchiate, l'autunno affiorava dalle nostre anime come un doloroso ricordo, come un male creduto vinto e che improvvisamente riprendesse ad angosciarci. Le campanule celesti pendevano alle finestre della nostra casa e il cibo quotidiano diveniva più dolce, s'infrolliva nella penombra delle mense mentre le stanze, ciascuna col suo odore particolare, si trasformavano in specchi nei quali la realtà tendeva, in diverse forme, a divenire figura. Anche noi ci sentivamo poco più che figure, dovevamo vivere nell'umidità schiva e suadente del verde che si estendeva in vastissimi prati; e nella loro bruma a sera si scioglievano le nostre midolla, il pulsare della nostra vita fisica si faceva più acuto: pauroso del fiammeggiare lontano fermo e solenne dei boschi e dei giardini. E i monti, più oltre, come vagheggiati dalla memoria, conducevano all'ultimo gorgo del giorno le loro linee di silenzio e ci lasciavano soli con la nostra stanchezza e con i nostri dubbi. Tutto ci sfuggiva: la vita, la terra che si faceva troppo bella per non nascondere qualche orrore. Come cercando, salivamo e scendevamo per i declivi, chiedevamo qualche cosa a chi non poteva udirci; e talvolta, nei nostri cammini improvvisamente finiti sul crinale di un colle, scostando con le mani le foglie stillanti di luce aranciata che celavano i residui della vendemmia, comprendevamo che il grande fiume dal colore di latte appena incristallito, che ci appariva là in basso, era l'Acheronte. In quel mondo dalle cangianze di bolla di sapone anche il fiume sinistro doveva prendere quelle apparenze e diventare amabile: ma nelle ombre superbe, nelle forme indistinte delle terre e dei paesi che si estendevano al di là di quelle acque riconoscevamo i segni della potenza di Ade. E del resto dovunque, ormai, nel concitato dialogo di colori che ci si preparava intorno, viveva la presenza del dio dalle viscere di bronzo; il mondo scendeva sempre più nel pozzo d'ombra degl'inferi, e sembrava disperatamente gridare la sua bellezza condannata. Le campanule spiravano sui libri aperti, come chiedendo pietà al cielo, i pergolati si affacciavano sul vento e le fontane sapevano consumare, illimpidendole, le mani che vi si immergevano. I grammofoni, dalle logge ancora aperte, giocavano la grande rapsodia dei cuori distrutti e delle nubi fuggenti mentre le lepri saltavano oltre il filo delle tenebre e nei parchi, di meriggio in meriggio, si conchiudeva l'infruttuosa meditazione delle statue. Noi ci aggrappavamo con spasimo ai giorni ed alle ore, eppure non tentavamo di ribellarci al destino segnato dalla terra. Stavamo perdendo anche il nostro ultimo fuoco: quelle fanciulle che ci avevano guardati con amore in altro tempo, anch'esse, unica certezza e quiete, cominciavano a divenirci estranee. I tratti dei loro sorrisi s'intristivano, i puri corpi si ammantavano di un nuovo freddo lume, ma nelle menti maturava la crudeltà del silenzio ed il rigore dell'indifferenza. Era vano chiedere amore o anche solo un ricordo

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