al riparo dall'eccesso. Questo bisogna amare in Bellini: pochi altri hanno annunciato il futuro con -tanta dolcezza. Con rabbia son capaci tutti. Ma con dolcezza ... E poi il senso del teatro. Il settecento (Rossini compreso, che, non badate alle date, era un uomo settecentesco) non aveva in senso stretto nessun senso del teatro: aveva il gusto della cerimonia e la libidine delle processioni: costruiva l'Opera come un rito. Il senso del teatro, con quel tanto di canagliesco che gli compete, è una faccenda che intuì l'ottocento borghese e bottegaio. Consapevolmente lo predicò per primo con definitiva radicalità Verdi. Ma già Bellini, in segreto, lo possedeva. Nel secondo atto dei Capu/eti una rissa verbale tra Romeo e il suo rivale Tebaldo, viene interrotta dall'apparizione del corteo funebre che si porta via Giulietta. In scena si sovrappongono i due opposti dell'eroismo guerriero e virile e della morte, femmina e dolce: per un attimo c'è già il grandissimo Verdi del Trovatore, che coniuga un corteo di monache con i borbottii di un manipolo di gradassi nascosti nell'ombra. Il sacro e l'umanotroppo-umano, tutt'e due lì, sotto la medesima cupola musicale. Eccolo, il teatro. Lo fa intravedere Bellini quando tralascia gli schematismi rossiniani e si fa pigliare dalla storia. Nei Capuleti succede a tratti, non senza un certo pudore. Sintomatico è che manchi la catarsi finale (che esploderà geniale in Norma un anno dopo}: Giulietta e Romeo muoiono con discrezione, senza interminabili recriminazioni, senza eroismo esagerato: con mitezza. Se c'è commozione, è custodita dentro, molto dentro. Come se fosse rimasto qualcosa di quello scetticismo che inclinava il settecento a considerare inopBibliotecaGino Bianco Mario Rinaldi e Orazio Mori in I Capuleti e i Montecchi, Teatro di Pisa 1987. portuno morire in scena; e conseguentemente logico corredare i drammi di un lieto fine. Per la cronaca, l'allestimento pisano dei Capuleti si fregiava di scene e regia di Pier'Alli: belle le prime, con un tocco di neoclassicismo e tanta geometrica eleganza: un'eleganza povera, fatta con poco ma anche con classe. Quasi impercettibile la regia: tutto molto corretto, essenziale: anche scontato, a dir il vero. Venuta a mancare per un'indisposizione Julia Hamari, la coppia di amanti era interpretata da Mariella Devia e Kate Butler: la prima non ha un timbro indimenticabile ma la sicurezza nell'intonazione e nelle agilità è ammirevole: la seconda, paracadutata d'urgenza da Brema a sostituire la più quotata mezzosoprano ungherese, ha restituito con gusto e sensibilità i riflessi di giovanile dolcezza che certo appartengono a Romeo: ma la mancanza di un volume adeguato l'ha porta a diluirne il piglio eroico fino all'inapparenza. Di entrambe non riesco ad evitare di annotare la censurabile resa scenica: la Devia si affida (complice la regia?) a una gestualità da antiquariato; la Butler, che pure una sua androgina bellezza l'aveva, pareva inamidata. Mica un bello spettacolo. L'Orchestra Regionale Toscana era diretta da Donato Renzetti: in scioltezza, con gusto e musicalità lodevoli. Tutto sommato, un bell'allestimento. ARTE ''DOCUMENTA8 '' A KASSEL Antonello Negri IL CONTESTO Ogni cinque anni, con la mostra "Documenta", si celebra a Kassel un rito importante per l'arte contemporanea, che attira in quella città un pubblico numeroso di artisti e di apprendisti-artisti, di critici e di apprendisti-critici, di galleristi e di apprendisti-galleristi. Spettacolare come sempre, l'esposizione, oltre che nelle consuete sedi del Museum Fridericianum e dell'Orangerie con il suo parco, si è sviluppata diffusamente nelle vie e nelle piazze urbane, dove erano collocati sculture e "interventi" e avevano luogo azioni e performances (con qualche perplessità, naturalmente, da parte delle classi meno acculturate della popolazione locale, espresse con buona dose di ironia soprattutto da immigrati italiani, che a Kassel lavorano numerosi). Molti visitatori hanno trovato che questa volta, a differenza di quanto era capitato in altre edizioni, la mostra non seguisse una linea precisa, aldilà della proposta-rassegna di ricerche artistiche sperimentali perseguite attraverso avanzate tecnologie video. Oltre a esse erano in effetti esposte opere esemplificanti un po' tutte le tendenze artistiche degli ultimi e penultimi anni: qualcuno ha presentato tradizionali tele dipinte - il !rompe l'oeil con significati nascosti (ma non poi tanto) di Tansey, il realismo di denuncia antirazzista di Leon Golub, l'espressionismo politico-visionario di Kiefer, il graffitismo pedante dello spagnolo Sevilla e del portoghese Sarmento-; altri sono ricorsi agli ormai altrettanto tradizionali media dei materiali poveri e/o tecnologici variamente assemblati, con una propensione un po' stucchevole al visionario, all'evocazione ora del pre-, ora del post-industriale (dalle rovine di macchine di Richard Baquié alla Roma di Fabrizio Plessi, un ambiente che più che alle fontane e ai marmi della nostra capitale sembrava guardare, spettacolarizzandola, a un'arcaica, satanica organizzazione del lavoro industriale). Dal punto di vista delle tendenze dei linguaggi formali e delle loro tecniche è stato ancora confermato il principio, ormai da tempo dominante, della mancanza di principi minimamente comuni, p~r gli artisti, a cui fare rife_rimento. _Il risultato attuale della vecchia battaglia per 21
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