Linea d'ombra - anno V - n. 21 - novembre 1987

ILCONTESTO occidentale: presente, passato e futuro convivono e si confondono; memoria e sogno si complicano a vicenda; sulla scena luoghi, situazioni e piani di realtà si sommano e si alternano senza soluzione di continuità, spesso il meccanismo delle vicende rappresentate, invece di un andamento lineare, sceglie un itinerario complicato e concentrico. Così, anche i personaggi possono perdere la loro propria identità, sdoppiarsi, moltiplicarsi, come avviene nel lavoro di Bemba, dove due attori interpretano più personaggi utilizzando maschere rituali che consentono loro un continuo cambio di identità. Tale trasgressione delle strutture logicocognitive per noi più abituali è possibile grazie al recupero del valore evocativofantastico della parola orale, che discende dal carattere magico e rituale della tradizione; quella delle lunghe serate passate ad ascoltare il canto dei griots, gli artigiani della parola, i depositari del sapere della collettività e della sua storia, dei quali si trova un'eco precisa nei lunghi monologhi presenti nelle quattro opere e in personaggi come Sapon, il cantastorie di Tomoloju, artefice della vicenda in grado di esprimersi in una forma così intensa da dar corpo e materialità alle sue parole, che poco a poco diventano uomini e azioni. Ad emergere, dunque, sono il potere della parola, e la sua forza evocativa, ma insieme la mistificazione e le discriminazioni che da essa possono avere origine. Tutto ciò è ben presente ai quattro drammaturghi africani, i quali non esitano a far riflettere i propri personaggi su tali problemi: si pensi al dialogo in cui, all'inizio dell'opera di Labou Tansi, Antoine e il suo braccio destro discutono del comunicato che annuncerà la falsa deposizione del capo di stato; oppure alla figura del portavoce, presente nella pièce di Bemba, di cui il capo villaggio dice: "[egli] traduce con chiarezza i miei pensieri. La mia lingua è la scure che abbatte gli alberi, e pulisce il sottobosco; la sua è la zappa che coltiva, che completa il mio lavoro". La riflessione sulla lingua conduce ariflettere sul potere degli uomini, sui mezzi per ottenerlo e per conservarlo, tema che percorre in modo più o meno esplicito tutte e quattro le opere. Per Soyinka è il tentativo di Jero di confrontarsi col potere statale e al contempo di conquistare il controllo delle altre sette religiose; Tomoloju mostra invece la corruzione e la bramosia del potere nei panni di un piccolo funzionario amministrativo; Labou Tansi immagina un capo di stato che per prevenire un B 0 liotecaGino Bianco complotto mette in scena un falso colpo di stato di cui però perde il controllo restandone vittima reale; Bemba, infine, ci mostra un capo villaggio che, incapace di controllare infrazioni e rancori che minano l'integrità e la coesione della comunità, è costretto a fuggire nella foresta e a dichiarare il proprio fallimento. Un potere, dunque, in crisi, un potere corrotto, frutto marcio dell'indipendenza dei giovani paesi africani; questo sembra essere uno dei fili conduttori che legano le quattro opere, che così portano sulla scena i disagi e le contraddizioni dell'attuale fase di transizione che il continente nero sta vivendo, prigioniero com'è delle proprie arretratezze economiche e delle lotte intestine, dello scontro continuo tra vecchi e nuovi poteri, tra vecchie e nuove culture, tra vecchi e nuovi assetti sociali, di cui la crisi e la follia del potere, costantemente in bilico tra farsa e tragedia, non sono altro che il clamoroso risultato patologico. Di conseguenza, l'Africa che gli autori ci vogliono mostrare - a parte Bemba che preferisce seguire altre vie - è una realtà lontana dai canoni esotici cari alla percezione occidentale; è invece un mondo investito da un irregolare e spesso drammatico processo di modernizzazione: è l'Africa delle banche, degli uffici, dei ministeri dove si svolgono transazioni e contratti, lottizzazioni, e speculazioni, alleanze e complotti. Insomma, il teatro africano che costituisce questa rassegna sembra riproporre, con tutti i rischi di semplificazione e di schematismo che ne conseguono, un teatro di denuncia che vuole ammonire e ricordare i tempi bui che l'Africa, ma non solo essa, sta attraversando. È questo il senso delle parole che Labou Tansi ha premesso al suo lavoro: "Voglio riuscire a cacciare dentro ogni parola il dolore degli uomini sotto gli artigli di un secolo che strazia ogni speranza e intrattiene con l'avvenire relazioni di panico". MUSICA IL SENSODELTEATRO Alessandro Baricco Ho visto a Pisa i Capuleti e Montecchi: sesta opera di Bellini, scritta un anno prima di Sonnambula e Norma. Nella storia dell'Opera abita un punto invisibile: quello in cui l'opera seria settecentesca sfuma nel melodramma romantico. Poche cose in realtà sono così lontane come quelle due: eppure la storia le allinea una dietro l'altra come stagioni di un'unica ambizione. Erano due mondi, in realtà, che si avvicendavano, sconvolgendo le coordinate del sentire collettivo. L'istante preciso dell'avvicendamento resta misterioso: a complicare le cose ha contribuito sicuramente il fatto che la cerniera tra i due mondi rechi il sigillo dell'arte rossiniana: e non c'è nulla di più ambiguo, illusorio e sfuggente del teatro serio rossiniano: che è un ossimoro: e là dove inaugura il dramma è in realtà la paura del dramma che racconta: e confessa. Di rossinismo, nei Capuleti ce n'è in abbondanza, soprattutto nel primo atto. Ma è già maniera, imitazione, semplicistica adesione a un modello di successo. C'è di Rossini il modo di ritmare la narrazione, cioè l'architettura, e l'uso delle forme, e l'utilizzo del Coro, e certi stilemi di sicuro effetto, tipo le ripetizioni, i crescendo e marchingegni simili. Ma di Rossini manca il genio. Voglio dire manca la nevrosi, l'inquietudine perenne, e la necessità dell'ebbrezza a ogni ·costo (diceva Savinio che è per Rossini come per il ciclista: se rallenta troppo casca. Nevrosi, pura nevrosi). Manca la follia delle colora ture vertiginose, del virtuosismo canoro come fantasmagorico annichilimento del soggetto, luccicante via di fuga dal Senso. Rossinismo senza Rossini, insomma: come· uno che gridi di paura senza aver paura, ma solo voglia di farsi sentire. Di suo, Bellini aggiunge due cose: un melodiare tutto particolare e un senso moderno del dramma che Rossini non aveva, o meglio, non voleva avere. La melodia belliniana: quello è un prodigio. (Immagino una vita capace di meritarsi come epitaffio una melodia di Bellini.) Canta Giulietta, nel primo atto "Oh! Quante volte": ed è già tutto un altro mondo; scivola via per sempre il settecento, sul declivio di quel canto che tutto già sa del romanticismo, ma molto ancora ne tace, filandone le frange meno infuocate,

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