DISCUSSIONE "... un bravo ragazzo qualsiasi di cui l'esercito farà un soldato, cioè, come dice la voce del narratore fuori campo, 'non un robot, ma un killer'." si riduca a vocazione irenista e querimoniosa. E altrettanto inevitabile è che, all'opposto, la nuova "ideologia italiana" (risultato fatale dell'incontro, imminentissimo, tra craxismo e scalfarismo) ricorra - per irrobustirsi e galvanizzarsi - a performances ginniche e a esercitazioni belliche. OLTREIL VIETNAM Goffredo Fofi Lontano il tempo di Berretti verdi. Durante la guerra del Vietnam solo John Wayne portò a termine un grosso film su di essa, a suo smaccato, ignobile, patriottardo sostegno. Ma successivamente il cinema americano si è rifatto ampiamente ed è stato un diluvio di film sul durante e sul dopo, su storie di plotoni e di singoli, di renitenti e di reduci, di là e di qui dell'oceano; spesso non così facili da interpretare (anche da digerire) nella loro morale per uno spettatore europeo e di sinistra, essendo comunque film americani, di un paese che la guerra l'aveva fatta e le piaghe le aveva ancora tutte aperte, e dove il Vietnam significava una rottura così grave da rendere indispensabile vuoi, per il potere, dimenticarla o nasconderla, vuoi, successivamente, esaltarla revanscisticamente (e non tanto per la sconfitta subita quanto per la piaga aperta in patria, e per quello che essa aveva comportato di spaccatura e di rivolta interna), vuoi, per i più inquieti, interpretarla, darle un significato nel bene o nel male, farci i conti, darsene ragione per poter andare avanti. Pur sempre (a destra, o a sinistra, o al centro) da americani. Platoon è l'esempio classico di certa puttaneria "americana" e cinematografara: superspettacolo, grandi capacità di narrare l'azione e l'orrore della giungla, protagonisti l'apprendistato di un innocente e, mi voglio rovinare!, due Rambo due, uno buono e uno cattivo. Coppola, che aveva dedicato al Vietnam Apocalypse Now, già quasi dieci anni fa, ha avuto l'accortezza di fare un film "piccolo" e molto solido, il contrario di Apocalypse perché film di tradizione e di interni, e che dà fiato a quella propensione al melodramma che è tipica di Coppola quasi sempre. Giardini di pietra è un film molto compatto, è un film molto "pieno", su un leit-motiv rituale: i funerali dei giovani morti in Vietnam nel cimitero militare di Arlington, a Washington. Protagonisti i vecchi militari che officiano, con dei giovanissimi dai compiti di perfetti automi cerimoniali, a rappresentare lo stato fossa dopo fossa. Il Vietnam non lo si vede che in televisione, nelle sezioni ultime del film e della stessa Washington vediamo poco. Gli ambienti sono ridotti e monotoni: una caserma, un appartamento. E i personaggi anche, sono pochi: due vecchi commilitoni, bianco e nero, che ne hanno viste tante e il bianco ossessionato da tutte quelle morti, che vorrebbe aiutare i giovani, come i sergenti duri di tradizione BibliotecaGino Bianco hollywoodiana, a essere più preparati agli orrori che vedranno, alle vere regole da imparare per sopravvivere nella giungla; la donna del bianco, giornalista al "Washington Post", dunque sinistrorsa, che discute non solo il metodo, ma il fondo stesso della guerra, da lei definito un "genocidio"; e un ragazzo, che smania di andare in guerra, che naturalmente, morirà, alla fine, quando riuscirà a essere spedito in Vietnam. Ora è sua la bara che viene calata nella fossa, ora è per lui l'estremo rituale ossessivo e risibile, ma con una sua ragione (di risarcimento della nazione, che fa un bel funerale a chi ha spedito a fare una pessima morte). Il melodramma di Coppola ha lo spessore di psicologie monocordi ma credibili, di un dialogo di sofferta tensione, di sviluppi che sanno dove portarci, di una costruzione avvincente. Al punto che alla fine, magari arrabbiandoci con noi stessi, finiamo per versare anche noi una furtiva lacrima su quella vita perduta. Per uno della mia generazione (quella di Coppola, ma da qui, senza guerre e con altri miti) può sembrare paradossale commuoversi per dei portatori di orrori come furono gli americani in Vietnam e per la morte di un infatuato fessotto come il ragazzo del film. Per uno della generazione dopo, più americana degli americani, più stelle e strisce che Reagan, non sarebbe strano: l'adesione è ora totale, e semmai c'è lo sconcerto di dover poi quadrare questo film e Platoon, e magari il Kubrick, e magari gli Stallone/Eastwood ... Che a me succeda di commuovermi non vuol dire automaticamente che aderisco alla morale del film, ma più semplicemente che si aderisce alla sua capacità di romanzo, vuol dire che un "buon romanzo" sa sempre farci entrare nelle ragioni dei suoi personaggi, nella loro umanità e nella loro crisi. Ben diverso è il caso di Kubrick, ben più grande la sua· ambizione (anche più di quella di Coppola in Apocalypse, che era comunque "un film sul Vietnam"). A Kubrick interessa la guerra non da oggi. Dei suoi rari film tre l'hanno a protagonista, e due la incrociano più e più volte, e negli altri si parla comunque di conflitto, interindividuale o di gruppo, di disagio di una civiltà che predispone all'aggressività e alla violenza. In Fear and desire si assisteva, come nella seconda parte di Full metal jacket, al gioco del caso e dei doppi (il nemico chi è, se non un pezzo di noi?) in una giungla-labirinto-ring; in Orizzonti di gloria alla contrappozione tra la miseria dei semidei, generali che decidono vita e morte della truppa da un bel castello del '700, e il caos di una trincea brulicante del '14-'18; in Stranamore alla logica dell'errore, tarlo e sotterranea condanna, o vocazione, del progetto "razionale" di chi detiene il potere atomico, il più ''potere di tutti''. Poi Spartacus, corpo a corpo e battaglie ordinatissime, la guerriglia contro la guerra, e la sconfitta della prima, e in Barry Lyndon, la guerra come "continuazione della politica in altri modi" e viceversa, e sempre strumento di classi. In Full metal jacket, più che in Vietnam, siamo nell'astrazione 11
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