Linea d'ombra - anno V - n. 20 - ottobre 1987

UN BUONTAGLIODI CAPELLI Roberto Romani T agliava e mi guardava di sottecchi. Quando il movimento delle forbici si accelerava e le dita si infilavano più nervosamente nei capelli ed egli prendeva un'aria più sostenuta dietro la poltrona girevole, io sapevo che il momento era venuto. Non gli restava che scegliere il modo di attaccare il discorso e nell'indugio si appoggiava con più forza ai braccioli e mi imponeva un leggero dondolio. Infine calava all'altezza del mio orecchio, ed era pronto. Mi guardava con un'aria perplessa. "È stato molto generoso, dottore", cominciò. Provocava la conversazione chiamandomi direttamente in causa, ma tenendosi volutamente nel vago. In questo modo mi costringeva a dargli spago. "Generoso?", chiesi. "In che senso generoso?" Lasciò cadere una pausa di silenzio prima di spiegarsi. "Con quel mancino senza talento, quel Di Fabio. Voglio dire che è stato troppo benevolo, dottore". Mi piacque mostrarmi indifferente. "Oh!" dissi, "si scrivono tante cose di getto. Un commento a caldo, che vuole che sia? E poi Di Fabio è poco più che un esordiente, tra i professionisti. Sarà un incoraggiamento, per lui." Non lo avevo accontentato. Scosse la testa e ripartì. Ricominciò come mi aspettavo, con un discorso dalle premesse più larghe, concentriche. "Mi lasci dire", obiettò. "Lei mi capisce benissimo. Io so con chi parlo. Lei scrive di sport, lei è competente nella boxe. È all'altezza, voglio dire." "È la mia professione", dissi. "Una professione come un'altra." "No, no," insisté, e capii che non aveva affatto apprezzato il mio sfoggio di modestia. "Lei scrive di boxe ed ha un suo pubblico. I suoi lettori lei li orienta, nella boxe." "In qualche modo, sì" ammisi. "Scientificamente, voglio dire." "Oh", mi schermii. "Non pretendo questo." Non mi ascoltò. "Però desidero," proseguì, "che lei si fidi di me. Non badi a questo", e accennò al salone e alla fila dei clienti che aspettavano su una fila di poltrone alla parete di fondo. "lo non le parlo da barbiere. lo non ho la testa qui." Mi rilassai. Adesso la sua figura mi pendeva tutta addosso. Notavo che era una persona ben curata, con qualcosa di indefinibilmente civettuolo, per la sua età. Ma la sua faccia era tutta borse e la dentiera gli gonfiava vistosamente il labbro superiore. "Non ci faccia caso", riprese. "Con loro si parla per parlare. Quel che sanno della boxe è per sentito dire. Con loro non ci si intende. La cosa più importante non la sanno." Mi incuriosii. "La cosa più importante?" Mi fissò per un momento che mi parve troppo lungo. "I segreti," disse, e aggiunse con un tono da complice: "Non debbo insegnarlo a lei. La boxe è tutta un segreto." "Una certa boxe," corressi, dimostrandogli interesse per la sua allusione. "Lei vuol dire certi vizi, immagino. Trucchi, combines. Si sa ... " liotecaGino Bianco "L 'argent, dottore," precisò, con un che di esageratamente torbido nella voce. E ribadì, definitivamente: "L 'argent, e tutto quello che un pugile ha dentro. Tutto quello che non si può vedere sul quadrato." Qualcuno si alzò dalla poltrona di fianco alla mia e il principale lo seguì alla cassa. Quando il cliente ebbe pagato, il principale fece il richiamo che conoscevo. "Ringraziate!", disse, rivolgendosi a un gruppo di aiutanti immaginari. Era µna delle abitudini che conservava meccanicamente dal tempo in cui aveva avuto fino a sei garzoni di bottega in un salone di lusso dalle parti di via Sistina. Forse rivedeva se stesso e quei ragazzi e una galleria dai lunghi specchi. Ma ora non aveva nessuno che accompagnasse il cliente fino alla porta, salvo il vecchio che accudiva alla mia testa. Ma non era un garzone, lui, e non era portato per le cerimonie. Quel che aveva era solo un certo mestiere, un buon taglio di capelli, e sapeva che poteva bastare. Un attimo dopo aveva già ripreso il filo del discorso. Gli premeva "segnare un punto" su di me. "Da competente a competente, dottore. Quel Di Fabio non ha avvenire." "E chi lo sa", dissi. "Vai a vedere cosa succede sul ring tra un anno, cinque anni. Gli avversari che gli mettono di fronte, la fortuna ... È un ragazzo. Chi lo sa?" "Se è per questo", protestò, "lei si è già spinto un bel pezzo avanti." E, con mia sorpresa, si mise a citare testualmente alcuni passi dell'articolo:." Furore agonistico... un rande/latore senza perdono ... E tutto questo per lui! Puah! Non si scomodi troppo, dottore!" Cominciavo a spazientirmi, ma in pari tempo la sua ostinazione mi divertiva. Decisi di non concedergli niente. "Picchia forte," dissi, "non sarà un Marciano ma picchia forte, questo sì!" Fece un gesto di disapprovazione con la mano. "Allora non ci siamo intesi. Quelli sono cazzottacci, è rissa. Non è scherma. La noble art, ahimé!" E improvvisamente si ritirò, come se fosse pentito di avere osato un giudizio troppo drastico e troppo offensivo, per me. "Ma è solo un parere," soggiunse, "il mio parere, nient'altro ... " Lo tranquillizzai. "Per carità!" dissi, "sentirsi così vicini e attenti dei lettori come lei non sa che piacere faccia. Nella mia professione è la migliore ricompensa, sa? È una passione, la sua. Da dove le viene?" Fu come se lo avessi sollevato di una spanna. Si rialzò tutto compreso di se stesso e inseguì un punto sopra la testa del principale che - lo vedevo - fingeva di essere assorto, sopra la poltrona accanto, intorno a una calvizie senza speranza, ma non perdeva una parola della nostra conversazione. Il vecchio indugiò sulla mia domanda. Era felice che glie- !' avessi fatta, lo capivo, e sfruttava quel piccolo intervallo in cui la mia attenzione cadeva interamente sulla sua persona. Cercava di tirare la cosa per le lunghe. Si strinse nelle spalle, affettando un atteggiamento troppo elusivo. "Lasci stare", mormorò. "Non conta."

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