Linea d'ombra - anno V - n. 20 - ottobre 1987

STORIE/DAVENPORT linee convergevano in un'unica stanza, la stanza vuota di un edificio vuoto di un romanzo vuoto. Qualche figura qua e là non poteva mancare. Nei disegni di prospettive c'erano sempre figure collocate senza ragione dentro piazze vuote o nell'atto di salire lunghe scalinate, uomini senza volto con bastone da passeggio, donne con canestri, zingare con cani. Che sfinimento in quei lunghi pomeriggi italiani! A Praga la città entrava in agitazione contro la sera. Apparivano lampade dietro le finestre. Il fumo saliva dai camini. Le campane suonavano. In Italia, gli occhi nei volti delle statue si incavavano, le finestre s'abbuiavano, ombre si muovevano attraverso le piazze e scivolavano lungo i muri degli edifici. La notte era un errore, un fato, sbaglio e fato antico la notte. Leonardo, per aumentare la luce delle sue lampade, aveva riempito dei globi d'acqua, come Edison aveva fatto con gli specchi. E gli italiani la notte non dormivano. Dormivano il pomeriggio, stavano a letto buona parte della mattinata. Di notte gli italiani parlavano. Salivano e scendevano scale. Correvano per le strade, come Pinocchio per provare le sue gambe. Su tavoli di marmo stavano vecchi tarocchi, il vassoio con le tazze accanto a una brocca di pietra, romana come un busto di Cinna. E gli Elementi analitici di Tullio Levi-Civita sono lì, accanto a loro, con una irreprensibile naturalezza. Quello era un paese dove il movimento di Zenone poteva essere compreso. La monotona uniformità dell'Italia somigliava alle immagini di un film che procedesse con la lentezza del sonno, così da rendere l'ordine e l'imprevisto ugualmente impossibili. La forma di un bicchiere e il discorso di un anarchico erano entrambi già stati decisi millenni prima, e riemergevano ogni giorno, insieme a tutti gli altri gesti italici, da un ritmo generato nei forni e nei torchi per le olive d'Etruria. A Vienna, a Berlino, in mancanza dell'italica continuità delle cose, il nuovo sapeva di frivolezza e il vecchio di decadenza. Sul muro, un manifesto antico quanto i Gracchi, annunciava in verdi peperone e in gialli estate, una commedia dal curioso titolo, Elettricità sessuale, e la vecchia che gli stava accanto con lo scialle nero e il cesto di cipolle, avrebbe potuto benissimo salire sulla gondola del dirigibile "Leonardo da Vinci", il cui arrivo da Milano, con l'ingegner Enrico Forlanini alla guida, era atteso da un momento all'altro, e far vela al mercato a spettegolare di Rinaldo, il nipote del prete il quale, l'aveva saputo ora dal fornaio, era diventato sindaco nel Nebraska. Un galantuomo impomatato, con un paio di scarpe color crema, si puliva le orecchie con l'unghia del mignolo intanto che loro, all'altro capo del tavolo, cenavano con salsicce e peperoni. Dopo il caffè e il sigaro se ne andarono a letto con soldatesca imp~rturbabilità. Max disse che dovevano fare il patto di non dimenticare quel buco nel pavimento, attraverso il quale ora potevano vedere una sorta di grande pizza rossa squartata da un coltello che, osservò Kafka, doveva essere stato sicuramente un dono del Gran Khan a Marco Polo, un ricordo che coll'andar del tempo avrebbe insinuato in ciascuno di loro qualche dubbio sulla propria sanità mentale. Prima di mettersi a dormire, Otto fu preso da un riso convulso di cui non volle dare spiegazione, e Pinocchio passò per la strada di corsa, con Mangiafuoco alle calcagna e tre gendarmi dietro, e proprio sotto la loro finestra una donna raccontò, per quel che poterono capire, le faccende private di qualche imperatore. Quella notte Kafka sognò colonne ioniche in un campo di fiori in Sicilia, che era anche Riva, giacché i sogni sono immancabilmente doppi. C'erano rocce scure formicolanti di lucertole, una tarma su un muro, una spirale di piccioni, una filza di api. I pini erano virgi54 BibliotecaGino Bianco liani, digradanti e scuri. Era penosamente solo e aveva l'impressione di dover vedere delle statue, forse di statisti e di poeti, meravigliosamente macchiate di licheni e devastate dal sole. Ma le statue non c'erano. Da dietro una colonna spuntò Goethe e, con infinita libertà e arbitrio, recitò una poesia che egli non capiva. Ai suoi piedi stava un coniglio intento a mangiare un tasso barbasso. 11Comitato aveva consigliato di prendere il treno per l'aerodromo e loro avevano stabilito che, siccome l'Italia era l'Italia, quello era decisamente un ordine. Pur di ottenere anche la più piccola vittoria sul caos, Max ne fece una questione di principio, si sarebbero arrampicati dovunque. La linea ferroviaria per Montichiari era quella del locale per Mantova e correva per tutto il tratto di fianco alla strada, così, una volta a bordo, dalla piattaforma che ondeggiava e sussultava fra le due carrozze, ebbero· l'illusione che il mondo, nella sua ingegnosità, si muovesse insieme a loro. C'erano automobili che sobbalzavano nella polvere, scosse dalla velocità, mentre i loro occhialuti piloti conservavano una singolare dignità di fronte alla selvaggia agitazione delle macchine. C'erano carrozze dondolanti, trainate da cavalli che andavano come se, al suono della bucca e del tamburo del Pretorio, stessero portando Eliogabalo al Circo Massimo. C'erano biciclette su cui si potevano vedere dei personaggi usciti da Jules Verne, Antinoo con un berretto scozzese, duellanti di Heidelberg, matematici inglesi, baschi ·dal visto perfettamente squadrato sotto il loro tipico berretto, e un prete con la sottana polverosa svolazzante che pareva la Vittoria intenta a riportare la flotta a Samotracia. Non c'erano aeroplani nel cielo quando arrivarono. La strada per l'aerodromo sembrava un raduno di tribù tartare a un garden party inglese. Tende e baracche, tutte sovrastate da bandiere, spuntavano sopra una folla di persone, carrozze, cavalli e automobili che si riversavano in tutte le direzioni. Un airone di tedesco fece lampeggiare il suo monocolo e indicò la strada per gli hangar. Un socialista con una gamba di legno stava vendendo "Bandiera Rossa" a un prete la cui borsa era più fonda di quanto non fossero lunghe le sue dita. Da una Lanchester giallo vivo scese un nano dal petto gonfio come il gozzo di un piccione. Indossava un abito nero e perla, guarnito di pannelli e risvolti ornati di ricche abbottonature. Zingari altezzosi come re mongoli facevano la coda sotto la sguardo di un gendarme di cui anche gli occhi parevano di cera. Sopra il ronzio delle voci si poté udire la banda scatenarsi in una fragorosa ouver.ture dei Vespri siciliani, poi d'improvviso si fece strada tra la folla lo scalpitio della cavalleria, un mirabile turbinio di bardature, un fremito di piume e mantelli scarlatti. Una vecchia dallo sguardo lattiginoso offriva mazzetti di fiori bianchi. Un contadino con un grande mantello alla maresciallo Ney stava accanto a un giornalista francese con le scarpe a punta. Gli hangar parevano grandi teatri di burattini col sipario abbassato. Per sottrarre tutte quelle invenzioni a occhi indiscreti, spiegò Otto. Ma alcuni aeroplani erano fuori, ed essi se ne stettero lì un po' colpevoli, e di fronte alla stranezza di quelle macchine insetto si abbandonarono allo stupore più del previsto. Sono troppo piccoli, disse un francese alle loro spalle. In realtà i fratelli Wright non c'erano. Erano a Berlino, ma c'era il loro rivale Curtiss, seduto su una sedia pieghevole, i piedi poggiati su una latta di benzina. Stava leggendo il "New York Herald Tribune". Lo guardarono sgomenti. Kafka apprezzò il suo distacco professionale, simile a quello di un acrobata, che tra poco si esibirà sotto gli occhi di tutti ma che intanto non ha niente di meglio

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