STORIE/DAVENPORT I fratelli Wright erano i figli di un vescovo ma, come spiegò Otto, i figli di un vescovo americano. La sua era una chiesa di dissidenti separati da altri dissidenti, una congregazione con una bianca costruzione di legno sulla collina e, sotto, un fiume giallastro, forse il Susquehanna. Immaginare i sogni degli americani è qualcosa di impossibile. Chi avesse sorvolato una comunità come quella, in aeroplano o in pallone, avrebbe visto laggiù scolaretti che piantavano alberi. Bufali e cavalli pascolavano in un'erba così verde che alcuni la dicevano blu. La terra stessa era nera. Le case, a un solo piano, sorgevano tra giardini in fiore. Si sarebbe potuto vedere il buon vescovo Wright leggere la Bibbia presso la finestra, o un senatore guidare la sua automobile lungo una strada. I giovani Orville e Wilbur avevano costruito dei pipistrelli meccanici, disse Otto, in base ai disegni di Sir George Cayley e di Penaud. L'America, infatti, era un paese dove il sapere europeo non era altro che un insieme di congetture da mettere alla prova sopra un'incudine. Avevano letto Le macchine volanti di Octave Chanute; avevano costruito aquiloni. Il loro punto di partenza era stato l'aquilone, non l'uccello. Era stato quello il grande errore di Leonardo. L'aquilone era venuto dalla Cina secoli prima. Era passato per le mani di Benjamin Franklin, che aveva catturato l'elettricità per il mago Edison, il quale, si diceva, avrebbe presto visitato Praga. Uomini come Otto Lilienthal avevano montato aquiloni e cavalcato il vento ed erano morti come Icaro. I Wright tutto questo lo sapevano. Avevano letto Samuel Pierpont Langley, avevano studiato le fotografie di Eadweard Muybridge. Gli americani erano fatti così. Prendevano le teorie come i pellicani ingoiano i pesci, pragmaticamente, e dalle idee estraevano audacemente delle realtà. Ma il giornale del mattino, arrivato su a Riva col vaporetto, riportava che forse i Wright avrebbero volato a Berlino e non a Brescia. Era un segno della loro rivalità con l'americano Curtiss, i cui progressi sulla macchina volante erano, per molti versi, più avanzati dei loro. I villaggi sulla sponda del lago erano ammassati, una casa sopra l'altra come in una tela di Cézanne, dal lungolago fino in cima alle colline dove stava la chiesa, più alta di tutto il resto coi rintocchi della sua campana. A Praga, sotto le mura della città vecchia, tra i laboratori degli alchimisti e le minuscole botteghe degli orafi del vecchio ghetto, aveva provato lo stesso stupore attonito già provato in Italia, come se fosse stato pronunciato un incantesimo e la magia avesse funzionato. Non era forse vero che a Riva un gabbiano aveva recitato un verso in latino? Il lago era vasto come il mare. Otto, che indossava una giacca con cintura e un berretto, fece qualche giro intorno al ponte del tremolante e sovraccarico bastimento. Max e Franz presero posto su una sedia da viaggio pieghevole, accanto alla timoniera. Chi non conosceva Otto e Max, pensò Kafka, poteva scambiarli per due principi di un manifesto Art Nouveau di un'opera russa. Solo un'impressione, perché erano uomini moderni, calati in pieno nella nuova era. Max aveva venticinque anni, una laurea, una posizione, e l'anno precedente aveva pubblicato un romanzo, lo Schloss Nornepygge. Era per questo che il desolato castello di Brunnenburg, su quelle selvagge colline della val Camonica, aleggiava nella sua memoria come un fantasma? Essi non parevano accorgersi della vacuità del lago a mezzogiorno. Avevano una loro vita interiore la cui profondità non permettevano di sondare, data la loro impenetrabile riservatezza, uguale, 52 BibliotecaGino Bianco del resto, a quella di tutti gli uomini. Otto era nato nel nuovo mondo, a contatto coi numeri e le loro invidiabili armonie e col pensiero curiosamente vuoto di Ernst Mach e Avenarius, la cui mente era come quella dei Milesi e degli Efesi dell'antichità, brillante come un'ascia, elementare come foglie e semplice come una scatola. Questo nuovo pensiero era nudo e innocente; col tempo il mondo lo avrebbe ferito. E lo stesso Max aveva le sue visioni in quella selvaggia innocenza. Solo pochi anni prima un sobborgo di Jaffa era stato denominato Tel Aviv e dicevano che là i sionisti parlassero l'ebraico. Max sognò di uno stato ebraico, irrigato, verde, elettrico, saggio. 11destino del nostro secolo fu concepito nella desolata monotonia delle aule scolastiche. Le aule italiane erano certamente come quelle di Praga e di Amsterdam e dell'Ohio. Il sole del tardo pomeriggio vi entrava dopo che gli scolari se ne erano andati a casa facendo frullare trottole e lanciando biglie sulla via del ritorno. Una carta geografica della Calabria e della Sicilia pendeva dal muro, policroma come Leoncavallo, lirica nella sua allegria giallo-verde quanto la carta degli elementi che le pendeva accanto era russa e astratta. Gessetti bianchi e gialli giacevano nei loro supporti e la geometria che avevano tracciato era ancora là sulla lavagna, vistosa, tragica, e abbandonata. Le finestre, contro le quali una vespa si librava e sbatteva, saggiando per tutto il pomeriggio la durezza di quella polverosa lucidità, erano desolate e grandiosamente malinconiche come la porta d'una stalla aperta in ottobre sul mare del Nord. Qui Otto aveva imparato la valenza del carbonio, qui Max aveva visto daghe lucenti estratte dà un Cesare sanguinante, qui Franz aveva sognato la grande muraglia cinese. Ma sapeva davvero qualcosa l'umanità? Erano uomini a insegnare ad altri uomini. Chiunque poteva vedere che si trattava di un circolo chiuso. • Tolstoj era a Jasnaja Poljana, ottantenne, barba e vestiti da contadino, camminava senza dubbio all'aperto, in quei boschetti di esili betulle, sotto un cielo bianco dove il senso del nord è una quiete acuta e distante, un'intuizione del vuoto della terra, condivisa dal lupo e dal gufo. In qualche parte, nella inimmaginabile vastità dell'America, Mark Twain fumava un Avana e sollevava lo sguardo verso le nuove automobili che procedevano a tre a tre su strade che solcavano rosse foreste di aceri. Il cane dormiva ai suoi piedi. William Howard Taft forse gli telefonava di tanto in tanto, per raccontargli una barzelletta. Una barca a vela passava, al timone un antico cacciatore barbuto. Franz Kafka, cornacchia. La disperazione, come la gobba di gru sulla schiena ondeggiante di Kierkegaard, era al seguito di chi viaggiava. Aveva preso una laurea in giurisprudenza meno di tre anni prima e stava diventando rapidamente, come gli garantiva Herr Canello, un esperto di assicurazioni contro gli infortuni sul lavoro. I caffè letterari di Praga, che non frequentava, sia quello espressionista che quelli dedicati alle cetre e alle rose di Rilke, gli avevano aperto le porte. Lo zio Alfred, che aveva ricevuto tante medaglie, Alfred Lowy, il fratello maggiore della madre, non era forse salito fino a diventare direttore generale delle ferrovie spagnole? Le ferrovie spagnole! E lo zio Joseph era nel Congo, chino su un registro, di sicuro, ma bastava che alzasse gli occhi ed eccola lì, la giungla. E poi c'era lo zio Rudolf che faceva il contabile in una fabbrica di birra, e zio Siegfried, medico condotto. E suo cugino Bruno, che si occupava della pubblicità di Krasnopolski.
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