Linea d'ombra - anno V - n. 20 - ottobre 1987

GLI AEROPLANIA BRESCIA Guy Davenport K afka stava in piedi sul molo di Riva sotto il cielo di un inizio di settembre. Malgrado gli stivaletti e l'ampio soprabito, lanaturalezza della sua posa era di un nitore atletico. Camminava con la scioltezza di un corridore ciclista. Otto Brod, col quale aveva trascorso la mattinata parlando di cinematografo e passeggiando lungo la spiaggia sotto i pini loquaci e le ville gialle della strada del Ponale, si accese un sigaro e propose una birra chiara prima di pranzo. Uno spruzzo d'aria dolce del lago scompigliò un cerchio di piccioni che si alzarono in volo tra un via-vai di gabbiani. Sdraiato sulla scaletta del porto, un pescatore in grembiule blu fumava una piccola pipa. Sull'asta di un edificio perfettamente squadrato, ondeggiava la bandiera austriaca con l'aquila a due teste. Un vecchio che stava annodando i fili di una rete stesa tra due pali, li osservò con l'aperta curiosità degli italiani. Una soffusa campana rintoccò sulle colline. - Buona idea, disse Kafka. Ci toglierà dalla bocca il sapore di Dallago. I suoi occhi, quando li si poteva scorgere sotto la larga falda della fedora nera, apparivano insolitamente grandi. Al naturale colorito scuro della sua ossuta faccia-quadrata, Otto notò che l'Italia aveva già aggiunto una sfumatura di rosa. L'ora, il vento del sud che spirava da Sirmione, aveva cominciato a strisciare sul blu cupo del lago. li vecchio forte veneziano fra Città Riva e la stazione ferroviaria sembrò a Kafka un intruso nel rigore euclideo delle case di Riva. Gli ricordò lo schfoss di Merano, che lo aveva turbato non solo per lo stato di abbandono e le finestre come orbite cieche, ma anche per il presentimento che esso sarebbe inesorabilmente ricomparso nei suoi sogni più angosciosi. Anche se non avesse intuito la muta pretesa di quel castello vuoto di ossessionarlo come una presenza né benvenuta né spiegabile, era pur sempre spaventoso sapere che c'erano al mondo cose del tutto prive di senso e tuttavia persistenti, come pesanti libri di legge che l'umanità, con ostinata riluttanza, non volesse distruggere ma a cui non volesse nemmeno ubbidire. li castello di Riva, la Rocca, era una caserma per l'alloggio delle reclute, ma il castello di Merano, il Brunnenburg, era un'enorme carcassa. All'improvviso sentì il telefono squillare nelle stanze più alte e si ricordò di quel mattino ai Bagni della Madonnina e delle risposte di Otto, cortesi ma ambigue, a Dallago, al poeta che aveva improvvisato un'apologia sulla comunione dell'uomo con la natura. Che sciocco, aveva detto Otto più tardi, mentre passeggiavano. I cubi di Riva, bianchi ed esatti, osservò Kafka, erano un'architettura completamente diversa dai lobi e dalle volute di Praga. E c'era una verità in quella luce di Riva, avrebbe detto un poeta, che era l'opposto delle mezze verità della luce di cristallo di Praga, che non conteneva poi nessun fuoco, nessuna trasparenza assoluta. Invece di quelle lunghe lastre di luce squadrata in misurate proporzioni, a Praga il tempo era di una ricchezza buia e scintillante. Otto rispose che lì la luce era pura e vuota e creava fra gli oggetti una certa libertà. Le stesse ombre sembravano scolpite. È un mondo più vecchio, aggiunse, eppure un mondo a cui la nuova architettura sta ton;iando. li cemento non è altro che la vecchia casa mediterranea di fango, e le pareti di vestro sono un desiderio rinnovato di ricreare gli stessi tagli di luce degli aperti paesaggi dell'Egeo. Lo stile più recente, disse, ama sempre il più antico di quelli che si conoscono. li prossimo wiedergeburt ci verrà dai tecnici. Max Brod, che era rimasto in pensione a scrivere, era già al caffé e per farsi individuare sventolò in aria il giornale. - A Brescia ci sono gli aeroplani! gridò, e un cameriere che avrebbe potuto servire un seltz allo zar di Bulgaria, tanto solenne era il BibliotecaGino Bianco suo portamento, guardò Max di sopra le spalle con dignità imperturbabile: per lui era solo un cèco, e probabilmente un ebreo, che pestava i piedi e sventolava in aria "La sentinella bresciana". - Aeroplani! Blériot! Cobianchi! Die Bruder Wright! - Due bionde, per piacere, disse Otto al camieriere, il quale si sentì sollevato dal fatto che gli amici del cèco non agitassero le braccia e si mettessero a ballare sulla terrazza. - Incredibile, disse Otto. Una fortuna assolutamente incredibile. Kafka si fece una bella risata, perché Max era impulsivo quanto lui era incline a rimuginare e rinviare, e la loro amicizia era un continuo conflitto fra le improvvisazioni di Max e le caute decisioni di Franz. Era una commedia che si riproponeva tra loro a ogni momento. Erano a Riva da un giorno; Max aveva impiegato un mese a convincere Franz ad andare in vacanza a Riva, ed ecco che Max gli metteva fretta sin dal secondo giorno. Ma, come disse subito, al richiamo delle macchine volanti, che nessuno di loro aveva mai veduto, lui non poteva resistere. Valeva bene la pena di rinunciare alla dolce quiete di Riva. Otto prese il giornale di Max e lo allargò sul tavolo. - Brescia è giusto all'altro capo del lago, spiegò Max. Possiamo prendere il vaporetto fino a Salò e poi l'accelerato. Mancano tre giorni, ma dobbiamo arrivare lì almeno un giorno prima, perché la Mitteleuropa calerà in massa con tutti i suoi cugini e zie. Ho scritto al Comitato, qui, al secondo paragrafo. Perché naturalmente c'è un Comitato. - Certo, disse Franz, un Comitato. Alla presidenza, su poltrone dorate, sedevano il dottor Civetta, il dottor Corvo e lo stesso Mangiafuoco. - Gli ho detto che siamo giornalisti di Praga e che ci serve un alloggio. - In ultima analisi, sospirò Kafka, ogni cosa che accade è un miracolo. e 'era un vaporetto il mattino dopo. Salirono a bordo e si stupirono del macchinario antiquato e dei colori vistosi. Soltanto sei anni prima, aveva raccontato Max la sera precedente al caffè, sotto un cielo molto più alto dei cieli di Boemia e stelle due volte più grandi di quelle di Praga, due americani avevano tratto da una congerie di teorie la combinazione di elementi più plausibile e avevano costruito una macchina che volava. Quel volo era durato solo dodici secondi, e a vederlo ci saranno state cinque persone a dir molto. Presso un rigoglioso campo di grano, sotto il più vasto dei cieli, un 'intricata geometria di fili e netti rettangoli di tela tesa, giaceva come la nave funebre di un faraone. Come un telaio montato su una slitta. Un insieme elegantemente tenuto insieme, puntellato e bilanciato come la macchina del tempo di H. George Wells. Il motore scoppiettò, le due eliche a vite frullarono, piegando al suolo la lussureggiante erba americana. I topi campagnoli corsero veloci verso le loro tane in mezzo al granturco. Le orecchie dei coyote si drizzarono e i loro gialli occhi brillarono. Orville e Wilbur Wright erano fratelli inseparabili come i Goncourt? Oppure, come Otto e Max, erano rispettosi l'uno dell'altro e buoni camerati, ma sostanzialmente molto diversi? Venivano dall'Ohio, agili come indiani, ma se fossero democratici, socialisti o repubblicani, Otto non lo sapeva. I redattori dei giornali americani, tutti presi da duelli e concioni, non prestarono al volo alcuna attenzione. La strana macchina volò, e volò prima che una sola parola venisse stampata. Icaro e Dedalo avevano volato sopra le teste di contadini che non alzarono lo sguardo dalla ciotola di lenticchie e di pescatori che stavano guardando dall'altra parte. 51

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