culturale nel quale viene prodotta l'opera, appunto tutta una parte necessariamente non visibile. L'inconscio, secondo la critica psicoanalitica; ma esiste anche un inconscio sociale, quello che Jameson ha chiamato "l'inconscio politico". Ognuno di noi sa di essere in qualche misura subordinato alle tendenze intellettuali nelle quali si forma, nella quali si sviluppa, vive ed esiste, ma finché tu rimani cosi determinato sfuggiranno i cunicoli, passaggi da tana di talpa con i quali la persona si apre verso altro. Questo è reso evidente dai fenomeni di traduzione, di cui parlo nell'ultima parte del libro. Questa esigenza di creare una divaricazione, uno scarto fra il contesto e l'opera, può essere rafforzata dalla constatazione che ai giorni nostri c'è una tendenziale omogeneizzazione di linguaggi, a cui bisogna in qualche modo cercare di sfuggire. Mi pare che, al di là del problema della traduzione, qualcosa del genere accada anche nelle forme letterarie non dirette, mediate, metalinguistiche, come il rifacimento o la parodia, in cui si crea da subito uno scarto. Spesso l'autore finisce realmente col diventare, anche da vivo, quello che le circostanze lo vogliono far diventare. L'influenza, in questo caso, non è l'influenza di questo o quell'autore, quella di cui parla Harold Bloom, ma è l'influenza reale dell'universo circostante, una sorta di solidificazione della condizione storico-sociale e culturale nella quale sei. Questa contraddice profondamente la schizofrenia organica di ogni autore, e cioè la pluralità, la personalità plurima. La parodia, il rifacimento e la traduzione sono una forma abbreviata, una scorciatoia alla schizofrenia necessaria per l'opera letteraria. Ci vuole una bella dose di incoscienza, di mancanza di sguardo su di sé, per non sapere che quando si scrive si mette in moto veramente un altro "sé". Altrimenti non spiegheresti, per esempio, il passaggio alla forma metrica. D'altra parte questo non farebbe che confermare uno dei luoghi comuni, ma giusti, del pensiero contemporaneo, quello della fine dell'unità della persona. Attenzione: io sono molto critico verso quelle tendenze che da venti o trent'anni ci stanno ripetendo in tonalità esultanti il tema della fine della persona cristiano-borghese, appunto per quest'esultanza, perché considerano come la scoperta di una verità profonda quella che è semplicemente il portato dei processi di reificazione e di alienazione degli ultimi duecento anni. Ma vi sono delle forme di produzione e delle forme del vivere, per esempio quelle che noi chiamiamo arti, che implicano un momento di ritualità che le fonda: il precetto del "si piange cost' di cui ci diceva De Martino. Ora, -il momento della ritualità è veramente un uscir di sé, e questo non fa altro che confermare quello che gli uomini da Platone in poi hanno sempre saputo: quando si parla della divina mania, dell'ispirazione, dell'est deus in nobis, si dice solo questo, se lo si spoglia di tutto l'apparato mitico. Si tratta semplicemente del fatto che è un altro ordine. I tentativi compiuti dalla teoria letteraria del nostro secolo, Jakobson e cosi via, sono volti a identificare una particolare BibliotecaGino Bianco INCONTRI/FORTINI funzione del linguaggio, quella appunto letteraria e poetica; ma non ce la fanno, perché non è "da dentro" che si possono trovare queste cose, bensi "da fuori", come dicono quelli ai quali mi sento piu vicino. Quindi si può definire ciò che poesia è a quel modo che certi teologi definivano Dio, cioè per via negativa, si può dire ciò che non è: ma dire ciò che non è significa dire ciò che le sta intorno, ciò con il quale si tende e collutta. Che rapporto c'è fra questa idea di poesia che è sempre poesia "alta" o non è, e la diffidenza invece molto forte verso una poetica come quella della Morante, nella quale si vuole conservare ancora un mandato etico-religiosoalla letteratura? Nel caso della Morante distinguerei fra quella che è la manifesta intenzione "alta", ma nel senso di "missionario", visibile soprattutto ne La Storia, e il problema del linguaggio "alto", per esempio di Aracoeli. La struttura di Aracoeli ha poco o nulla a che fare con quella de La Storia, e lo stesso si può dire per la poetica. Perché in Aracoeli c'è un enorme, violento accrescimento del tasso di letterarietà, intesa nel senso tradizionale, e non piu controllato, come era in Menzogna e sortilegio che, è una delle ragioni del suo fascino, è pensato come una traduzione, la lingua italiana in cui è scritto è allontanata, diventa quasi una scrittura convenzionale, con quella patina di antico, di impolverato, che hanno spesso le traduzioni. Molti autori operano in questo senso, con maggiore o minore felicità: si pensi al "falsetto" di Landolfi. In Aracoeli invece ci si trova di fronte all'assunzione di ben altro, come di chi perde ogni limite, e butta, come un Cellini, i vari materiali, in questo caso lessicali, ma non solo, anche figurativi, eccetera, in modo da dare un carattere di mescidanza violenta, aumentando il tasso di barocco, portandolo all'esasperazione, e quindi chiaramente infischiandosi del cattivo gusto, dell'aggettivazione grondante, eccessiva. Con questo non voglio dire che tutto questo sia positivo, dico che è cosi, e che questa è una delle ragioni per cui il libro è dispiaciuto a tanti lettori, perché si presenta come qualche cosa di eccessivo, gesticolante. Invece secondo me questa forma è· coerente con il materiale orrendo della vicenda, col modo in cui è presentata, anche se poi questa forma non apre nessuna strada. Passando ad altro, lei ha sempre sottolineato l'importanza della mediazione, e la necessità di avere oggi qualcosa come dei repertori di "forme" per combattere il culto dell'immediatezza, il vitalismo e altri valori molto diffusi nella nostra civiltà. È un'esigenza alternante: varie volte nel nostro secolo il "bisogno di forme" si è posto come restaurazione, come ricerca di forme chiuse, a cui seguono periodi di rottura. Negli ultimi vent'anni si è riformata una tendenza abbastanza autorevole di autori che hanno continuato la figura del poeta lirico in conflitto radicale col mondo, quale si era stabilita in Europa tra la fine del Sette e l'inizio dell'Ottocento, e pro33
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