Linea d'ombra - anno V - n. 20 - ottobre 1987

VALE ANCORALAPENA INCONTROCONCESARECASESEFRANCOFORTINI a curadi Gianni Turchetta A chi avesse il culto dellecoincidenze, laprimametà del 1987 ha offerto la pubb!tcaz1one, quasicontigua,degl'interventi sulla letteraturaitalianadi CesareCasese di Franco Fortini, e cioè, rispeltivamente, Patrielettere (Einaudi, pp. 185, L. 18.000) e Saggiitaliani (Garzanti,pp. 809, L.34. 000):entrambi uscitigiànel 1974, entrambioraraddoppiati per l'inserimento degliscrittidegliultimianni(ela differenza di volume sarà da addebitare,certo,aiprevalenti interessi germanistici di Cases,maforseanchea unadifferenza di temperamento). Molte cose uniscono Casese Fortini:a cominciaredall'accanito anti-specialismo, che è volontàdicogliere/a totalità, sempre inafferrabile, ma pure semprer1ecessaria, valendosi di un rigore, di metodoediprassinterpretativa, che è lontano anni luce, anzi è il verocontrariodellasvaporante tuttologia dei commentatorideimass-media.Tuttoquesto è in rapporto, naturalmente,conlacomuneappartenenza, o forse oggi sarebbe megliodirevicinanza,lmarxismo:secondo una lettura inizialmenteortodossae poi semprepili smussata di Lukàcs, nel casodi Cases,secondouna interpretazione eterodossa, venatadiesistenzialismoaattenta alla lezione di Gramsci e dellostessolukàcs,nelcasodi Fortini. Entrambi inizialmente legatia unasinistrastoricapoi ripudiata, e in seguito partecipidell'esperienzadellanuova sinistra, Cases e Fortini rappresentanoqualcosadipiu di un punto di riferimento intellettualeculturale:sonoprobabilmente in Italia i pili autorevoliesemplarid unarazzaormai in estinzione, quella cioè deicritici-politici, deicriticicapaci, al di là de/l'oggetto specificod'indagine,di conservare sempre una politicità sostanziale,esplicitao sottintesa,nei loro interventi. CesareCases, allievononsolodilukàcsmaanchediKarl Kraus, è incline, oltre cheall'ironia(conrisultatidiscrittura molto godibili e talora francamentespassosi)a un'autoironia che può confinare con l'autolesionismo.Nei confronti del lavoro intellettuale, e delproprioinparticolare,sembra nutrire uno scetticismo chedavverodisorientaunpoco/'ammira/or~. A me poi, cresciutoneglioscuri,anzitragici,ma tutto sommato speranzosi anniSettanta,premevaparticolarmente, quando sono andatoa Torinoa incontrarlo,cercare di capire meglio la contraddizioneapparentetraquesta sfiducia dichiarata (e assolutamentesincera)e /'eserciziodi una critica che di fatto mirasempremoltopiu inalto,opili lontano, di qualsiasi specialismo , a maggior agione,del giornalismo culturale: perchéilsuoobieltivo è aldi làdella cultura. · R icordando Calvino, e la suacapacitàdifare interventi critico-letterari e culturali, e insiemeinterventipolitici, lei aggiunge significativamente: "finchévalevala penadi farne''. Allora adesso non valepiu lapenadi fare interventipolitici? Certo, perché tutti ripetono piuo menolestessecose,poi 28 BibliotecaGino Bianco ci si trova in una situazione in cui anche chi per avventura avesse delle cose originali da dire non verrebbe percepito, proprio perché tutti fanno piu o meno lo stesso discorso. Anche i migliori quando scrivono un giorno sì e uno no sul giornale un articolo politico diventano ripetitivi, e insomma se ne potrebbe benissimo fare a meno. In un certo senso il Pasolini degli ultimi anni, per quanto fosse discutibile la sua posizione, proprio perché cosi unilaterale, da fissato, faceva piu effetto degli articoli di Calvino, uomo molto piu assennato e prudente, ma che proprio per questo poteva solo mettersi in concorrenza nella gara delle opinioni che lasciano il tempo che trovano. Non le sembra che in questo senso il 1977 sia stato per la società italianaun punto di non-ritorno, dopo il quale, con l'affievolirsi delle speranze di cambiamento, e la caduta per cosi dire dell'ottimismo storico negli intellettuali, e non solo negli intellettuali, legati alla sinistra, si è assistito alla deriva di un certo modo di fare politica e insieme di intervenire in modo "politico" nel dibattito culturale? Non so se sia una questione di pessimismo e ottimismo, perché si può essere anche pessimisti e però avere dietro di sé qualche cosa, un movimento o anche solamente una dottrina, che permette di agire anche in circostanze che inducono al pessimismo. Non credo che ci sia stata una svolta negli orizzonti oggettivi dopo il '77. È successo semplicemente quest9, che, fino almeno ai primi anni '70, continuava a agire un movimento, che poteva poggiare su basi fragili, poteva avere aspetti piu o meno confortanti, ma era qualche cosa che faceva vedere che il mondo stava cambiando, che c'erano delle forze in atto che in parte si erano già rivelate, avevano mostrato la loro vitalità, e in parte avrebbero trovato nel futuro maggiore identità. Invece dopo il '77 questa consapevolezza di avere dietro di sé un movimento che bene o male andava avanti si è perduta, perché il movimento studentesco del '77 è stato una fiammata che ha avuto anche aspetti interessanti, io non lo condannerei in blocco, ma si è esaurita molto rapidamente, e poi le prospettive che si presentavano, dall'integrazione totale alla lotta armata, erano evidentemente prospettive non solo tutte non condivisibili, ma che non avevano piu un carattere collettivo, erano soluzioni individuali che ognuno prendeva per sé. Al termine di questa decisione ci poteva essere la ricostituzione di un gruppo, di un'identità di gruppo, ma si trattava poi delle Brigate Rosse o che, non di movimenti che dessero a uno l'impressione che, anche restandone fuori, questo è il punto, ricevesse alimento dall'esistenza, dalla funzionalità del gruppo stesso, come avveniva appunto prima e dopo il '68. Non è che uno si identificasse completamente con il movimento del '68, ma il '68 rappresentava un modo diverso di fare politica, un'accensione politica di gruppi che finora erano rimasti estranei alla politica e che facevano politica in modo non tradizionale, e che concerneva tutti, in cui tutti si sentivano coinvolti, anche se stavano nel loro "buen retiro" a ponzare sui libri. Questo è venuto a mancare nel corso degli anni Settanta.

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