IL CONTESTO ra, pur conservando ciascuno la propria autonomia. Cosi diventava possibile, per chi guardava, cogliere le relazioni, immaginare e vedere la logica dell'opera. Poi lo stesso procedimento è stato alla base della costruzione di "macchine". Ma ritorniamo al rapimento di Moro. Secondo Gallerani quel fatto può essere anche inteso come massimo risultato di una certa tecnologia: e il massimo risultato di una tecnologia coincide con la sua fine. Quell'episodio aveva emblematicamente segnato la fine di una certa fase storica e, con essa, di tante altre cose: per esempio della dialettica di vero e di falso (o meglio, di ciò che si supponeva potesse essere vero/buono e di ciò che si supponeva potesse essere falso/cattivo). Il passaggio alla macchina, in quel momento, è stato un passaggio (fortemente radicato nella storia) a una situazione mentale di freddezza rispetto al prima, a una messa tra parentesi dell'ideologia. Nella macchina si trovava una freddezza logica non riducibile all'ideologia, una tensione pura di funzioni e di direzioni abitualmente praticata, piii che dagli artisti, dagli ingegneri. (Il modello operativo offerto dall'ingegnere rimanda a un altro azzeramento storico, quello dei costruttivisti e dei dadaisti. Ma non si tratta di rendere omaggi e di rifare, quanto di assumere un principio che, mettendo da parte l'ideologia, data per scontata, cerchi di ricostruire il mondo della sensibilità e della percezione in relazione alla realtà e alla storia contemporanea). Anche se costruite come macchine vere, le opere di Gallerani se ne distinguono per scarti lievi (per esempio l'inserto di parti di ottone non "funzionanti", ma che nelle macchine ci sono; oppure di piani fuori squadra ... ). D'altra parte non sono neppure rappresentazioni di macchine. Si collocano su un margine incerto tra le due possibilità, forse si potrebbero assimiliare a modelli di simulazione scientifica. Nascono dal banco di lavoro orizzontale, che consente tutte le operazioni - vero e proprio teatro di avvenimenti - ma dice anche con sicurezza che cosa è diritto e che cosa è storto, dando a chi opera su di esso la capacità di prendere e dare le misure. Un grande ambiente-macchina realizzato per la mostra li luogo del lavoro (Triennale di Milano, 1986) ha segnato monumentalmente questa fase della sua ricerca, mescolando il didascalico al visionario, l'immaginazione alla storia e al ritrovamento di funzioni meccaniche elementari. Quella macchina era un imponente insieme di pulegge e alberi di trasmissione appoggiati su so16 B1ollotecaGino Bianco stegni che valevano come le mansions delle sacre rappresentazioni medioevali: ma ciò che da essa veniva evocato, di cui si cercava di organizzare il ricordo, era la civiltà dell'industria, attraverso un concentrato dei suoi luoghi/spazi/movimenti/percorsi in un arco storico piuttosto elastico anche se determinabile. (In forma diversa Gallerani ha operato su quel tema della storia, del suo ricordo e della sua vincolante presenza, altrimenti sviluppato, in modi direttamente popolari ecorali, dagli abitanti di Norberg, vecchia cittadina mineraria della Svezia, che ogni estate mettono in scena gli scioperi dei minatori di inizio secolo proprio come in una sacra rappresentazione). Adesso Gallerani sta disegnando: elaborazioni di problemi grafico-rappresentativi portanti nella sua ricerca - il tema della colonna, della trave, della ruota ... - e copie dai maestri - Donatello, Gaudi, i pittori dell'Officina ferrarese ... - come ogni artista che si rispetti. Il discorso è ancora quello del ritrovamento di funzionamenti reali, intrecciato all'imprevedibile alleanza del banco di lavoro con le architetture-macchine di Donatello e del ferrarese Serafini. Foto di Sergio Grozzani CINEMA LAVECCHIA(SIGNORA?) ITALIA Goffredo Fofi Azzardiamo una distinzione generalissima: gli artisti colpiti da una dura disgrazia, che in qualche modo, in qualche momento si trovano a confrontarsi con la Vecchia Signora (la Commaraccia Secca, per dir meglio), ne escono a volte con il capo d'opera (penso a quel film sottovalutato e funereo che è il Satyricon di Fellini), a volte accentuan-- do la loro propensione alla decrepitezza dorata e non aurea (Visconti), a volte con un'opera rintronata e eccessiva, tutta fuori dalle loro corde, rifrittura di "grandi" banalità, com'è tristemente il caso del film di Olmi, Lunga vita alla Signora! Qualcosa di diverso che brutto: un film sbagliato, e fin offensivo per l'intelligenza degli ammiratori del regista. Avendo apprezzato (forse unico o quasi nella critica italiana) Cammina cammina, e poi il bellissimo romanzo-sceneggiatura Ragazzo della Bovisa, e considerando Olmi uno dei pochi artisti molto rispettabili del nostro paese, posso in tranquillità affermare che questo è il suo film peggiore. Un passo falso, una vampata di presunzione e ambizione mal riposte, una volontà peraltro confusa di dire il massimo e azzardare l'insolito. L'azzardo, però, non ha trovato la grazia, e ci dà solo un impasto di risaputo, una mescolanza di riferimenti tutti esteriori. Non citazioni, non omaggi: è semplicemente che Olmi, bravo in altro - negli scavi psicologici nell'intimo, nella espressione di un'etica nata dal quotidiano - qui pesca altrove un po' a casaccio, e finisce in cose che finora gli sono appartenute assai poco: nella zavorra di simboli e metafore che altri hanno saputo controllare ben meglio di lui. Lo sfondo di Diirrenmatt, i riti borghesi di Buffilel, i simbolacci di Bergman e Fellini, un pò della claustrofobia malata dell'ultimo Pasolini. Ma la morte è di cartapecora e il potere sono solo vecchie comparse mal dirette (ma Olmi ha mai visto in televisioneAgnelli o Wojtila, Andreotti o Ligresti?) e l'insieme è risibile e inerte, non certo sollevato dalla fissità sbilenca dello sguardo dell'adolescente consolato dall'idea ahi quanto profonda dell'angelo custode. Un Olmi disastroso è raro, anzi unico; per questo si ha il diritto di chiedere ben altro alla sua ritrovata salute, e di cercare di dimenticare questa sequela di banalità. Un angelo custode simile a quello olmia-
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