DISCUSSIONE che lascia insoddisfatti. Non vi si ritrovano nemmeno i riferimenti tradizionali dell'ala nonviolenta del movimento verde, o del pensiero antiautoritario. In compenso, troviamo La mia Africa di Karen Blixen,nonché testi di cantautori e fumetti (ma anche qui, in chiave accattivante: non si tratta che so, di Masters of war o di A hard rain gonna falls di Bob Dylan o di The unf orgettable fire degli U2 e dei fumetti di Munoz e Sampayo, o magari di Zorro Bolero di Altan). Specialismo, frammenti critici di sapere scientifico, piu alcuni "santoni" (i soliti: Commoner, Capra, Bateson, Rifkyn, un po' meno l'ostico Georgescu-Roegen): cosi si profila il panorama dei riferimenti culturali dei verdi italiani. È forse abbastanza per affrontare una fase politica; è pochissimo per reggere alla responsabilità e all'impatto di una "rottura epocale". Quindi, la leggerezza, il tono accattivante, la mancanza di "gravità" dei Verdi italiani (anche se non mancano certo le eccezioni) preoccupano perché rivelano questo vuoto di ricerca i e di riflessione, questa fragilità culturale complessiva. 1 Del resto, per quanto ne siano i figli perplessi, anch'essi riflettono i tempi che corrono - i tempi italiani: e i miraggi, non meno che le acquisizioni "in solido", della società italiana. Che ha espresso simpatia diffusa, e voti, ai Verdi, ed è certo preoccupata del proprio avvenire, e di Cernobyl, delle falde inquinate, per la Valtellina disastrata, e teme, anch'essa, la guerra possibile e l'apocalisse. Ma che non sembra davvero, infine, preoccuparsene; o meglio, non sembra preoccuparsi di ciò che, nel proprio modo di essere, riproduce ogni giorno le condizioni base di quei disastri. Vive da cicala, eppure sorride a chi propone di vivere almeno un po' da formica. Forse, proprio perché le stesse formiche, quelle verdi, non sanno sognare altro che un mondo a misura di cicala; o perché il loro sogno non è forte abbastanza ed è troppo vago, a brandelli. O forse, infine, perché non si sa ancora chi siano davvero, e cosa e dove e insieme a chi esse sognino. PERUNA FILOSOFIAPUBBLICA Francesco Ciafaloni Il libro di Salvatore Veca Una filosofia pubblica (Feltrinelli) è piuttosto insolito, se non isolato, nel campo degli scritti italiani che si occupano di politica o dei suoi fondamenti, di filosofia pubblica, appunto. L'isolamento è ancora maggiore se si tiene conto che l'autore si colloca a sinistra. In quest'area, di filosofie pubbliche ce ne sono state molte e forti, fino a poco tempo fa, per lo più riconducibili a una qualche variante del marxismo, o del gentilianesimo di sinistra che in Italia ha costituito gran parte del marxismo. Evidentemente non erano molto resistenti perché ora sembrano del tutto evaporate. La tendenza è a importare tacitamente l'America, anzi l'ideologia della destra americana. Un libro come questo è perciò isolato sia rispetto alla situazione di ieri sia rispetto a quella di oggi. Lo è soprattutto 8 I oteca Gino Bianco perché si colloca in un filone di pensiero che non fonda tutto, anche l'individuo, sulla politica e sullo stato, e perciò deve scoprire e giustificare i diritti e i doveri dell'individuo nei confronti degli altri. Detta altrimenti: la filosofia anglosassone non è stata mai molto popolare in Italia. Dato che stiamo importando cultura e costumi anglosassoni a tonnellate, è un'ottima cosa che si rifletta anche sui principi di quella cultura e non ci si limiti a consumarne i prodotti. Autori importantissimi, come Adam Smith o Stuart Mili, sono stati letti come poco più che il predecessore scemo e l'inetto avversario di Carlo Marx, oppure come gli ultimi costruttori delle macchine di legno del positivismo ottocentesco prima che gli agili velivoli dell'idealismo, portati dal vento poderoso dello stato etico, della nazione, del popolo, della classe, volassero altissimi sui fangosi terreni del diritto, dell'etica, dell'equità, della cittadinanza, della redistribuzione del reddito. Il mio atteggiamento nei confronti del lavoro di Veca, sia di questi saggi di riflessione e rielaborazione personale, sia del lavoro editoriale di proposta e riproposta di classici tradotti, è insomma un atteggiamento di simpatia e partecipazione. Non posso dire però che i modi della presentazione (le prefazioni, il quadro editoriale insomma) e gli esiti della riflessione mi lascino soddisfatto; o che mi aiutino a muovere almeno qualche passo nella palude pratica, concettuale e, alla fine, persino esistenziale in cui mi pare di trovarmi. E lo stesso mi accade per altri pensatori deboli. Vorrei provare a spiegare perché, anche se mi rendo conto che questo non produce una recensione in senso proprio, dato che ogni libro è un libro e ha diritto a essere letto e giudicato per quel che è e non confrontato con le esigenze del lettore o con altri libri che, secondo il lettore, l'autore avrebbe potuto scrivere. Salvatore Veca, ma anche Gianni Vattimo, con strumenti e convinzioni assai diversi, non solo non hanno soluzioni forti, ma sembrano non avere problemi urgenti. Gianni Vattimo, nei suoi scritti pubblici, che sono per lo più giornalistici, ripete ogni volta il miracolo di San Pareyson, detto anche dell'esistenzialismo positivo, che consiste nel mobilitare l'angoscia, e il problema metafisico fondamentale (perché esiste ciò che esiste e non il nulla) e l'essere per la morte, per concludere che tutto va bene madama la marchesa. Non si sa com'è, ma a un certo punto, senza che si incontri mai un punto di vero dissenso, forse perché, come per il miracolo di San Gennaro, uno si distrae, o pensa di essersi distratto, certo è che prima il sangue era solido, poi è liquido; prima c'era una drammatica denuncia, poi c'è la scoperta che questo, se non il migliore dei mondi possibili, certo è il meno peggio. Salvatore Veca ha altri autori, i maggiori dei quali, cioè i vecchi utilitaristi e contrattualisti, mi sono certo più congeniali di quelli di Gianni Vattimo, cioè Heidegger e Nietzsche. Ma gli autori di Veca erano autori problematici, come del resto tutti i positivisti seri, che non erano affatto persone
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==