me lo sarei aspettato. Bene, mi dico poi, la musica sarà il mio destino. Continuo a riassettarmi, dato che per chi va in cerca di lavoro l'ordine della persona è indispensabile. Infine mi avvio camminando radente i muri per via della pioggia. Ho pochi passi da fare, c'è della confusione davanti a me, sento del fracasso e delle urla mentre apro la porta del negozio. E sbaglio negozio. Il caso fottuto mi ha fatto entrare in una gioielleria. Il resto è quello che è. I due ragazzi con i quali impatto proprio sulla porta, il ragazzo estrae la pistola e si fa largo sparando. Una passante vede la pistola, sente lo sparo, si mette a gridare forte, fa per scappare e scivola, rotola sul marciapiede bagnato. Esco anch'io. Dal negozio vedo uscire due uomini e uno dei due ha la pistola. Prende la mira e spara. Mi metto a correre mentre il marciapiede si riempie di urla e di ombrelli che si agitano come pazzi. lo non ho ombrello, ma corro lontano. Mi prendono, e sono qui. Ora c'è silenzio. Sembra che anche oltre la porta nessuno si muova o parli. Da nessuna parte proviene alcun rumore. Avverto gli occhi dell'uomo. Non sono stanchi, né annoiati, né irritati. Mi guardano da lontano, ecco tutto. E che l'uomo ha ascoltato da lontano, mi rendo conto pure di questo. Che ho parlato a fare? Non lo so. L'aria è greve. Il mio respiro diventa d'improvviso pesante e affrettato. "Mi trovo qui per un equivoco" mi affretto ad aggiungere. E forse non avrei dovuto dirlo, dato che non spetta a me prendere decisioni. Sento l'uomo bofonchiare e tamburellare con le dita. Gli guardo le dita, sono carnose, grassocce, un po' bianche, con dei peletti neri che brillano sui metacarpi. "Ecco" concludo poiché l'uomo non parla. "Ho raccontato la storia di come ho fatto ad arrivare davanti al negozio stamattina. È come nascere e morire". Quest'ultima cosa all'uomo non è chiara, e non lo è del tutto nemmeno a me. Forse se avessi parlato della guerra sarebbe stata tutt'altra cosa. La guerra si capisce subito, quando c'è, anche se è meno facile capire che essa non viene di colpo e d'improvviso, ma è dopotutto la parte più grossolana e quantitativamente più apprezzabile di quanto avviene sempre e ogni giorno. I negri li hanno sempre ammazzati e continuano a morire. lo, perciò", non mi chiamerei mai un pacifista, e anzi i cortei dei pacifisti mi fanno schifo. Stanno bene come stanno, questa è la verità, non vogliono disturbie amano la buona coscienza. [!'uomo preme un pulsante che è al lato sinistro del tavolo e si percepisce un trillo roco e lontano. Subito si apre la porta e penetrano i dimenticati rumori del mondo. Mi danno malinconia. Entrano due agenti a cui l'uomo fa un rapido cenno con la testa. Mi rendo conto non solamente che ho parlato invano ma che nulla rientra nel mio dominio. E sono solo. A quel cenno i due mi agguantano per le spalle e mi tirano STORIE I ADDAMO 97 le maniche a scoprirmi le braccia. L'uomo si alza appoggiandosi con le due mani sul tavolo, spinge la testa verso di me. Tutti e tre, ciascuno dalla propria prospettiva, guardano le mie braccia. Guardo anch'io e vedo quello che loro stanno vedendo. La pelle sottilé e sordidamente bianca, le vene che si ramificano blu e tenere. Non capisco. Sento i loro fiati su di me. Sono una cosa, lo schifo di un insetto che può essere squadrato da qualsiasi lato. Scorgo i brevi segni delle punture all'altezza del gomito, mentre loro tre si fanno cenni di assenso. Ho un soprassalto. Non ho parole. Esse talora mancano, o manca l'utilità di esse. "Ti pungi" dice l'uomo. "Sei cotto, figlio mio, altro che madre vedova e padre poeta" ride e ridono gli altri. Sono inerme. Accenno alla gamba e al mio zoppicamento. "Dalla nascita" dico. "Zoppico dalla nascita. È accertata la carenza di calcio. Perciò periodicamente mi fanno endovenose di calcio". Ritengo anch'io che la cosa, così come è posta, suona umoristica, pur essendo reale. Infatti ridono. "A tua sorella" dice l'uomo sedendosi di schianto. Comincio a sentirmi confuso. Adesso nella stanza entrano ed escono in parecchi. Sembrano volare. Farfugli'ano quale.osa in segreto, talvolta qualcuno mi guarda, parÌano fittamente, scompaiono, ne vengono altri. Sembra che sia un intero esercito a transitare per quella stanza. Mi sento confuso e stanco. Qualcosa sta succedendo alle mie spalle, sopra di me. Si trama contro di me. Sono il soggetto e il centro, ma come bersaglio e nemico dichiarato. Stanno apprestando armi e trabocchetti. La società si difende. Mi devo guardare. Adesso hanno portato il caffè. L'uomo fa un gesto di offerta verso di me. Rifiuto con un calmo cenno della testa. A parte che sarebbe impossibile bere caffè, mi accorgo che non voglio fraternizzare. Adesso l'uomo beve il caffè. Di tanto in tanto mi sbircia. Adesso fuma una sigaretta e legge una carta che gli hanno portato. Adesso alza la testa verso di me. Mi viene voglia di alzarmi e chiedere a che gioco si voglia giocare. Appellarmi ai diritti costituzionali. Quasi certamente - penso - non si può trattare di un giudice, bensì di un commissario, o anche peggio. Sono sicuro che un giudice non riderebbe, sarebbe del tutto rispettoso dei diritti di ognuno, anche di un accusato, anzi soprattutto di un accusato. Contemporaneamente penso che una mia reazione potrebbe provocare chi sa quali altre reazioni. Devo muovermi con cautela. Da lontano qualcuno canta. È una voce femminile. Mi pare improbabile, dato il posto. Sento ridere in modo argentino. Chi canta? chi ride? Nessuno, mi rispondo. "Perché sei zoppo?" chiede l'uomo inopinatamente. Sgrano gli occhi. Lui non ha occhi.
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