nella sua tensione conoscitiva e costruttiva, nella sua ricerca di una ricomposizione della frattura tra uomo e mondo, attraverso una narrativa più accentuatamente saggistica o favolistica. Perfino quando avverte tutta l'intrinseca precarietà e improduttività del suo rapporto con il reale, Calvino spinge la sua ricerca verso orizzonti lontani e immaginari del passato (con Le cosmicomiche nel '65 e Ti con zero nel '67), ma non l'abbandona. E tuttavia, come La giornata d'uno scrutatore rivela il carattere illusorio o apparente di quella ricomposizione, così nell'avventura dell'uomo-mente dal nome impronunciabile si consuma ogni toosione costruttiva e progettuale. Inizia qui l'ultima stagione di Calvino. Attraverso e oltre l'esperienza strutturalista e combinatoria, viene maturando quella collaborazione al "Corriere della sera" e alla "Repubblica" che insieme ad altri scritti editi e inediti prepara e via via costruisce Palomar ( 1983) e Collezione di sabbia (1984) pur tra articoli storici, politici e letterari diversi. C'è in tutte queste pagine una continuità di fondo del motivo originario delle capre di Bikini, ma ormai nel quadro di una totale sfiducia nella capacità e possibilità di conoscenza e progettazione da parte della ragione umana. Negli articoli e servizi raccolti e riorganizzati in Collezione di sabbia, le "diversità" occupano l'intero orizzonte; la realtà tende di fatto a coincidere con l'alterità. Le collezioni, musei, esposizioni, scavi, monumenti, lontani paesi (Giappone, Messimo, Iran) frequentati e letti dall'intellettuale viaggiatore Calvino, spno altrettanti mondi peregrini, singolari, imprevedibili. Quanto più libera, estesa, infaticabile appare l'esplorazione di questi mondi, dei loro oggetti e piante, riti e linguaggi, tanto più misterioso, inafferrabile e oscuro ne appare il significato. Resta soltanto la possibilità di una osservazione interrogativa e congetturante. "La superficie delle cose è inesauribile" (Palomar, Torino, Einaudi, 1983, p. 57); ma questa interrogazione di sempre nuove superfici scopre anche sempre nuovi misteri, e riafferma continuamente la caducità di ogni giudizio. Ecco perciò che in un tale universo, nessuna conoscenza unificante, progettuale, è possibile. L'uomo che voglia appropriarsi di ciò che lo circonda arriva tutt'al più a diventare "uomo-più-cose" (Collezione di sabbia, Milano, Garzanti, 1984, p. 118). Il collezionismo è l'unica logica capace di dare "unità e senso d'insieme omogeneo alla dispersione delle cose" (ivi). Ma è una logica apparente, così come sfuggente è la logica che regola gli armoniosi giardini giapponesi e le aggrovigliate foreste messicane. Dichiara l'inesausto e impotente osservatore: "tra le ramificazioni d'argomenti mi sembra ogni tanto d'intravedere DISCUSSIONE una ragione decisiva, che un attimo dopo scompare." (ivi, pp. 175-8, 201). Questo rapporto tra l'intellettuale-viaggiatore e l'universo dell'alterità sembra talora porsi come contrasto tra la razionalità occidentale e un insieme di culture che sono ad essa estranee e ne mettono duramente alla prova la capacità di approccio e di interpretazione; e perciò, anche, tra le rumorose frenesie e incongruità del mondo moderno e gli spazi silenziosi e antichi dei templi e delle foreste giapponesi e messicane. Ma è breve illusione. L'alterità finisce pur sempre per confermarsi come il risvolto, la prova oggettiva di una universale insensatezza umana, fino a mostrarne i segni di vecchie violenze e di nuove minacce. Palomar conclude e completa idealmente l'intero processo. Uomo introverso e disincantato, senza più capacità né volontà di disegni generali e progettuali, il signor Palomar cerca di stabilire comunque un rapporto con il mondo, o più precisamente con un'area di realtà circoscritta e quasi separata da quell'insensatezza ("massacri" e "nevrastenie" ormai del tutto disideologizzati). Ma quanto più egli fissa "nei minimi dettagli il poco che riesce a vedere" intorno a sé (Palomar, cit., pp. 63-4), tanto più impossibile ne risulta un qualsiasi rapporto di conoscenza, integrazione e armonia. Gli oggetti più familiari e consueti, un'aiola, una stella, un geco, sono cioè per il signor Palomar altrettanto indecifrabili e inafferrabili che gli oggetti singolari e insoliti delle collezioni e dei paesi visitati dal viaggiatore-Calvino. Ogni oggetto infatti, è scomponibile e ricomponibile all'infinito nei suoi elementi, ma non è conoscibile: il movimento incessante di un'onda, il volo mutevole degli uccelli, la molteplicità delle erbe nel prato, sono la faccia di una realtà sempre sfuggente e confusa, di un ordine tutto apparente: che tra l'altro vanifica ancora una volta ogni illusione di separatezza. Non resta, appunto, che la "superficie inesauribile" delle cose, oltre la quale non si può andare (ivi, pp. 57, 99), e la possibilità di esercitare su di essa le interrogazioni e congetture di "un'attenzione minuziosa e prolungata" (ivi, p. 115). Calvino porta qui alle estreme conseguenze la scelta della congetturalità infinita rispetto al disegno concluso, la convinzione che non si possono né devono suggerire conoscenze ma riaffermare incessantemente la necessità di cercarle: con una implicita e salutare critica dei camuffamenti ideologici e delle euforie "comunicative". Ma egli sconta qui anche l'approdo definitivo della sua rinuncia alle istanze critico-costruttive, trasformatrici e progettuali. L'esperienza del signor Palomar, infatti, tende a esaurirsi in un esercizio della ragione che nei suoi limiti è del tutto autosufficiente; la ragione osservante e interrogante rimane alla fine prigioniera di se stessa e delle sue minuziose distinzioni e scomposizioni. Le inquietudini, ansie, insicurezze del signor Palomar trovano anzi in questo esercizio della ragione un paradossale equilibrio, tra ironico e funereo: come in un compiuto ciclo di esperienze, con un principio e una fine. Gli unici testi in cui questo equilibrio si rompe sono quelli che vedono riesplodere il motivo di un'alterità sofferente e innocente, di una natura "irreducibile all'assimilazione umana" (ivi p. 95), di una zona angosciosa e imperscrutabile verso la quale non è possibile né consentito nessun autosufficiente esercizio della ragione. Qui le capre di Bikini trovano i loro veri
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