Linea d'ombra - anno V - n. 19 - lug./ago. 1987

DISCUSSIONE come il genere capace di unificare una società altrimenti divisa per gusti e ideologie in maschi e femmine, giovani e vecchi, bianchi e non bianchi, istruiti e non-istruiti, raffinati e incolti''. Eppure Fiedler è di certo, seppure con un gusto per il paradosso che non sempre giova all'equilibrio della sua analisi, uno dei critici più sensibili ai problemi della letteratura di consumo. Ma quella che qui affiora è un'immagine poco duttile e troppo unilaterale: perché non considerare la varietà di forme che popolano la giungla romanzesca come un segno di vitalità? Perché non prendere in considerazione le potenzialità che le convenzioni di genere possono assumere se impiegate all'interno di un progetto volto alla riaggregazione del pubblico? Certo, il genere mostra altre facce oltre a quelle che qui si è cercato di mettere in luce: l'esistenza delle convenzioni può essere il miglior alibi per una grigia e confortante routine, da un'idea di letteratura come mestiere a una pratica di scrittura come catena di montaggio a volte il passo è assai breve, il rapporto più definito e ravvicinato con il pubblico può provocare abbracci troppo stretti e possessivi. Ma tutto questo è già stato detto più e più volte, molto meno invece si è cercato di portare l'attenzione altrove, sulle potenzialità implicite della letteratura di genere. Senz'altro rispetto a una ventina d'anni addietro lo stato degli studi intorno a questo tipo di produzione è migliorato: maggiore l'attenzione della critica, più fedele l'immagine che ne viene data. Ma non ancora abbastanza. Mi pare, infatti, che nonostante i passi in avanti compiuti, la comunità letteraria non abbia ancora perso l'abitudine di giocare con questa forma di letteratura una partita scorretta, resistendo difficilmente alla tentazione di valutare le strutture del genere piuttosto che le singole opere concrete. Un atteggiamento che si avverte nella versione tradizionale, aristocratico-avanguardistica, (ancora largamente dominante attraverso un'eloquente strategia dell'indifferenza e del silenzio) per la quale la presenza di una marca generica è segno inequivocabile di una resa alla ripetitività e di una corriva condiscendenza verso il pubblico, ma che d'altronde pare curiosamente riaffiorare in versione capovolta e insieme complementare nell'attività della critica più aperta e interessata all'analisi delle manifestazioni dell'odierno immaginario di massa. Sovente, in questo caso, la sensazione è quella che ritrovare nel testo tracce della memoria del genere sia tutt'uno con l'accertarne la qualità. In entrambe le versioni si finisce per assolutizzare indebitamente le strutture di genere trasformandole in criterio valutativo, mentre la percezione dell'individualità dell'opera si fa sempre più indistinta e indeterminata. E così si rischia di confondere Asimov con Dick o Lucas con Kubrick. Il punto è, al contrario, imparare a pensare la realtà del genere al di fuori di un meccanismo di opposti dogmatismi, smettendo di far ricorso a schemi generali in varia forma precostituiti. E allora, a chi voglia davvero guardarlo, il genere non potrà apparire che per quello che è: un nodo complicato di potenzialità e ambiguità. Capirlo significa anche comprendere che distinguere e valutare non sono semplici optionals del lavoro critico, ma la sua vera ragion d'essere. Svincolata la considerazione delle proprietà dei generi dal- )'impaccio di una lettura immediatamente valutativa, si può forse provare a ragionare con qualche frutto sull'idea di narratività che pare delinearsi dietro la varietà delle singole convenzioni settoriali. Ma conviene dare ancora una volta la parola agli autori stessi. "Un libro non mi giunge in forma d'idea( ... ), o di società, o di messaggio; mi giunge in forma di persona" (p. 100), così la Le Guin, mentre King scrive: "i romanzi sono motori, proprio come le automobili sono motori; una Rolls-Royce senza un motore potrebbe essere benissimo il vaso di begonie più lussuoso del mondo; e un romanzo in cui non c'è storia diventa niente più che una curiosità, un esile gioco mentale" (p. 91). I personaggi, dunque, e le storie come centro della scrittura di genere, ma non solo, anche le emozioni e i sentimenti (perché non è di sicuro un caso che molti generi - dal rosa all'horror - definiscano la propria identità appunto in relazione alla presenza di sentimenti ed emozioni particolari). Tutti elementi tipici del romanzesco tradizionalmente inteso: quegli stessi elementi che la scrittura d'arte del nostro secolo ha maggiormente messo in discussione e trascurato. Se infatti la letteratura colta sembra essersi fondata su un insieme di principi quali la ricerca programmatica di originalità e innovazione, il rifiuto dei generi e più in generale delle codificazioni retoriche, l'insofferenza nei confronti dei condizionamenti editoriali e la polemica verso il pubblico, la letteratura di consumo pare invece avere orientato sistematicamente le proprie scelte in un'altra .direzione. Una diversità più che evidente separa, quindi, questi due territori del letterario. Ma non è una diversità, per così dire, ontologica, che sia legittimo cristallizzare in un principio di ordinamento gerarchico come, purtroppo, è puntualmente avvenuto. Quella che distingue letteratura d'arte e di genere è, al contrario, una differenza funzionale, legata alla presenza, alla base di queste due sfere di scrittura, di serie distinte di presupposti progettuali, di modi diversi di concepire il dialogo letterario. Gli autori lavorano su differenti immagini del pubblico e delle sue aspettative, con diversi atteggiamenti verso la tradizione letteraria: altrettanto distanti è logico risultino le strategie di scrittura adottate.

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==