zione da una parte e dall'altra della sottile e insidiosa linea che separa la ricerca - a volte anche geniale - dell'effetto, dalla scivolata nel kitsch. Per quanto riguarda invece la Le Guin e la Highsmith, sono già le stesse indicazioni della biografia - origini o residenza europea - a dare alla loro connotazione di scrittrici americane una curvatura tipicamente continentale, e suggerire così tutto lo spazio che separa il loro modo di operare da quello di King. Nel lavoro di ricostruzione della tradizione e di reinterpretazione del genere da loro condotto appaiono più evidenti le suggestioni di certe forme della letteratura colta. Nel costituirsi di un modello particolare di scrittura fantascientifica e di suspense opera infatti un costante e percepibile riferimento alle ricche e consolidate strutture, per la Highsmith, del grande psicologismo narrativo, per la Le Guin, del filone fantastico e distopico della letteratura europea del Novecento (da Tolkien a Lem, da Zamjatin a Lord Dunsany) unite a quelle del romanzo realista. Da qui le due scrittrici sembrano trarre il principio di un personale "riorientamento" del discorso di genere; a differenza di King, nella cui rielaborazione della tradizione sono i materiali di provenienza "bassa" a giocare il ruolo principale. Le ambigue potenzialità del genere Scrittura come professione o artigianato, volontà di collocarsi - seppure in chiave personale - all'interno di una tradizione: atteggiamenti che certo non è casuale veder maturare a contatto con la realtà di una letteratura di genere. Qui infatti le modalità del rapporto tra autori e lettori tendono a raccogliersi in un corpus di convenzioni che finisco_no così per costituire l'intelaiatura privilegiata del dialogo letterario. A tale sistema s'incarica poi l'industria editoriale di dare definitiva sanzione materiale, creando per il libro canali specifici di circolazione, con opportune marche di riconoscibilità (si pensi, per esempio, al dispositivo-collana). A dirla così parrebbe senz'altro una situazione produttiva di netta perdita per uno scrittore sul quale pesa il vincolo incrociato che pubblico ed editoria impongono ai bisogni d'indipendenza della sua fantasia, spingendolo a reiterare le medesime soluzioni per garantire nuova soddisfazione a chi legge e ulteriori profitti a chi pubblica. Ursula Le Guin DISCUSSIONE In realtà, come sempre, le cose sono più complesse e meno lineari. Quello della libertà assoluta dello scrittore è, se occorre ripeterlo ancora una volta, un mito. L'atto letterario non avviene nel vuoto, anzi, si definisce come tale sempre in relazione a un limite. È lo stesso contesto letterario (dalla tradizione al pubblico), è la stessa particolare intenzione comunicativa che ogni opera esprime - anche quando sembra negarla - a orientare preliminarmente le scelte di chi scrive: tanto per il prodotto di genere, quanto per quello d'avanguardia. Ma allora, a guardarla da una diversa prospettiva, la realtà del genere può forse contribuire a dare trasparenza a una serie di presupposti e condizionamenti impliciti in ogni operazione letteraria quali che siano le sue pretese, e di cui conviene prendere comunque atto, anche se si intende discuterli o superarli. Un contributo di chiarezza, per dir così, alla coscienza dello scrittore, di sovente ancora troppo incline a crearsi un'immagine tanto romantica, quanto vaga e inadeguata della propria attività. Insomma, lavorando all'interno di un genere pare difficile, ad esempio, perdersi tra le ombre e i riflessi della propria soggettività. Il confronto necessario con un insieme di convenzioni non permette alcuna assolutizzazione del ruolo dello scrittore, che certo non può pensarsi come centro di un universo letterario tolemaico. Senza dire poi come quelle stesse convenzioni possano aiutare a tenere a distanza, a dare proporzioni equilibrate, a una materia personale e autobiografica che di frequente troviamo troppo immediatamente proiettata sulla pagina. I limiti di genere, dunque, possono rilevare una loro dinamicità, almeno sul piano della coscienza letteraria (d'altronde, credere che i vincoli in letteratura debbano di necessità irrigidirsi in una frustrante gabbia d'acciaio è un'opinione miope; e basta a dimostrarlo, credo, un solo esempio - provocatorio, ma proprio perciò tanto più eloquente - quello dell'Oulipo di Queneau, dove il massimo d'eccentricità si traduce, in effetti, nel massimo del rigore). Inoltre, in un universo letterario caratterizzato come quello attuale da una complessità difficilmente districabile che è in parte anche specchio fedele dell'inedita ampiezza ed eterogeneità del pubblico, quella dell'autore di genere è una posizione particolare almeno per un altro aspetto. Se per lo scrittore "senza aggettivi" l'impresa di identificare i connotati dei suoi potenziali destinatari diviene sempre più ardua, le strutture del genere consentono se non di precisare la fisionomia di quei lettori, almeno di disporre di un canale di comunicazione che può raggiungerli in maniera non precaria. Un patrimonio e un punto di partenza preziosi (anche se di per sé, com'è ovvio, non in grado di garantire la qualità dell'opera). Non solo, le convenzioni dei generi sembrano in grado di tagliare trasversalmente le stratificazioni del pubblico secondo i diversi livelli di competenza e di estrazione sociale, rivolgendosi a - e contribuendo così a configurare - un destinatario non elitario e specialistico, ma nemmeno esclusivamente popolare, piuttosto misto e allargato, interclassista o, se si vuole, di massa. Ma allora se la situazione è questa, non si vede perché - come sostiene L. Fiedler - l'esistenza di "uno sciame proliferante di sottogeneri" debba comportare necessariamente la morte del romanzo come "genere unitario,
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