Linea d'ombra - anno V - n. 19 - lug./ago. 1987

DISCUSSIONE Assedi a castelli tenebrosi, esplorazioni, antenne invisibili: è così emersa in questa rapida galleria d'immagini e metafore la differenza degli atteggiamenti verso la letteratura dei tre scrittori - il loro diverso modo di figurarsi la propria attività e progettare il colloquio con il pubblico-, pure le loro rispettive idee sull'arte rivelano più d'un punto d'intersezione. Può convenire provare a definirli. "Mestiere" e tradizione Nelle riflessioni di tutti e tre gli autori si fa notare la viva consapevolezza di come in ogni forma di scrittura il rovescio complementare, ineliminabile e necessario, dell'estrosità inventiva propria dell'ispirazione e della fantasia sia la concretezza materiale del "mestiere". La Highsmith ci spiega come il "talento" non po·ssa mai andare disgiunto dal "mestiere" (p. 68), e, pur ripetendoci sovente "che io sappia non ci sono regole per tutto ciò" (p. 58), si ostina a dirci della "fatica" che s'incontra quasi a ogni passo del lavoro di composizione (di come, per esempio, "sviluppare un'idea" sia "un processo di andirivieni, come la tessitura" - p. 45), a "suggerire vie d'approccio" (p. 19) scrivendo, in fin dei conti, un vero manuale di scrittura, per quanto eterodosso. Per conto suo la Le Guin a chi le chiede in che modo si possa diventare scrittore risponde provocatoriamente che innanzi tutto occorre "imparare a scrivere a macchina" (p. 178); e non diversamente stanno le cose per King. Niente di nuovo o particolarmente originale, si dirà. Può darsi. Ma proprio qui i tre autori di cui si sta parlando e, più in generale, l'intero insieme degli scrittori di genere, trovano una delle prime coordinate della loro coscienza letteraria: la tendenza ad assimilare la scrittura a una professione, a una concreta attività lavorativa. Poco forse, ma sempre uno dei più utili antidoti contro le mitologie vecchie e nuove dello scrivere che allignano invece con pervicace frequenza nelle acque della produzione cosiddetta di qualità. E forse in certi vezzi e ritardi della nostra civiltà letteraria non è impossibile leggere anche il riflesso della debolezza e latenza quasi costituzionale della scrittura di genere italiana. Ed è ancora la concretezza di quell'idea di lavoro letterario a rispecchiarsi nella propensione a unire costantemente i discorsi sui grandi problemi a osservazioni puntuali su questioni tecniche e compositive. A dimostrazione di un'acuta sensibilità per lo specifico letterario, testimoniata anche da una buona lucidità nell'analizzare e smontare le opere proprie e altrui (a scorno di chi continua a presentare la letteratura di genere come il regno del contenutismo grezzo). In un simile orizzonte l'attività letteraria è assai lontana dal presentarsi come gesto di creazione dal nulla. La sua forma tipica sarà piuttosto quella di un'invenzione in senso etimologico, come ritrovamento e non già produzione ex-novo. Ed ecco allora il rilievo tutto particolare che in essa viene a rivestire la realtà e il concetto di tradizione. È facile scorgere in queste pagine un senso di appartenenza a una tradizione e, più ancora, una volontà di conferirle una fisionomia diversa, di ricostruirla su nuove basi - ma fuori da qualsiasi programmatico atteggiamento di rottura. Si tratta di una tendenza antidogmatica all'apertura, all'intreccio di alto e basso, vale a dire a cercare i propri modelli, senza preclusioni, sui vari piani di articolazione del sistema letterario: un'idea, si direbbe, "allargata" di letteratura. Sono questi i caratteri dell'immagine di tradizione sulla quale sembrano lavorare i migliori tra gli scrittori di genere. Ne deriva, certo, una propensione ad attingere, per dar forma ai prodotti originali della propria fantasia, a un repertorio di temi e soluzioni preesistenti e quindi familiari ai lettori. Ma nello stesso tempo quel repertorio non viene pensato come un sistema chiuso e fisso, ma semmai duttile e in divenire, aperto a innesti e trasformazioni. Delitto e castigo è uno "splendido esempio" di racconto di suspense, e "credo che in realtà la maggior parte dei libri di Dostoevskij, se fossero pubblicati oggi per la prima volta, sarebbero definiti dei gialli. Ma gli si chiederebbe di tagliare, per via dei costi di produzione" (p. 9) dice la Highsmith, così come d'altronde nel dipanarsi del suo discorso è costante il ricorrere dei nomi, a fianco di quelli di autori specializzati (da Woolrich a Symons), di scrittori protagonisti della vicenda dell'alta letteratura novecentesca (da James a Ma-nn). Tolstoj e Dick, Tiptree e Boll, ma anche Tolkien e Andersen: non diverso da quello della Highsmith è l'atteggiamento della Le Guin, che anzi tende a rendere compiutamente esplicito nelle sue pagine il tentativo di costruirsi una personale mappa letteraria, i cui tragitti seguano un itinerario trasversale, indifferenti ai cartelli e alle etichette. Come non dissimile nei suoi tratti di fondo è il funzionamento della memoria di King, nella quale si accostano Friedkin e Stevenson, Poe e Lovecraft, Cain e Bradbury. Com'è ovvio, nell'ambito di queste generali coordinate comuni vi è poi ampio spazio per il profilarsi, di nuovo, della personalità individuale dei vari autori. E allora avremo il più spregiudicato gioco sui topoi (e stereotipi) di genere da parte di King. E la sua spiccata sensibilità multimediale, che fa del cinema soprattutto - come si è visto -, ma anche della musica rock, materiale costitutivo dell'identità del moderno racconto dell'orrore. È la sua "americanità". L'americanità - è Io stesso King a notarlo - di una cultura di massa e di un cinema che, assai più che sulle idee, sono abituati a fondarsi e a far leva sulle "emozioni viscerali" (p. 34); l'americanità dell'italianissimo Leone la cui "iperbole imponente e stupendamente volgare dei già iperbolici archetipi del western americano" (p. 37) sembra riflettere la medesima tendenza alla dilatazione dell'archetipo che è facile leggere nella scrittura di King, con il suo caratteristico movimento di oscillaPatricia Highsmith

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