Linea d'ombra - anno V - n. 19 - lug./ago. 1987

cologica è la realtà della nostra stessa mortalità. Certo è il più universale" (p. 65): ancora una similitudine di tono agonistico, l'immagine di un confronto violento. Questa volta però siamo al polo opposto della catena comunicativa: il paragone chiama in causa la figura del lettore e sembra illustrare un'idea precisa di come dar vita al dialogo letterario. Se i grandi archetipi - con la loro capacità di mettere in scena temi antropologici fondamentali come il rapporto del1'individuo con la morte, il sesso, l'inconscio, le sue paure, i suoi desideri - sono il nocciolo duro della tradizione del genere e la sua primaria fonte di vitalità, la via privilegiata per agire sul lettore passerà di sicuro attraverso la sfera delle emozioni primarie, su un piano antropologico, ancor prima che psicologico. Il rapporto tra autore e lettore risulterà così improntato a una netta asimmetria: i margini della libertà, del1'autonomia interpretativa di quest'ultimo appaiono programmaticamente ristretti. Perché il testo possa dirsi riuscito infatti, nel lettore, quasi costantemente mantenuto in un'atmosfera di disorientamento e d'attesa, le risposte emotive devono scattare con precisione secondo il disegno progettato dallo scrittore. Per contro, la fisionomia dell'autore e la sua autorità ne risultano rafforzate. Lo scacco nei confronti dell'ispirazione pare in tal modo capovolgersi e trovare una qualche forma di risarcimento nella "vittoria" sul lettore. Per Ursula Le Guin invece lo scrivere è innanzi tutto un gesto non comunitario, eminentemente privato e interiorizzato. Libero, ma insieme solitario: "la vostra libertà è ciò che avete comprato con la vostra solitudine" (pp. 182), come dice rivolgendosi a un pubblico di aspiranti scrittori. Una libertà che tuttavia non diventa affatto l'occasione di una chiusura ermetica nei cancelli della propria soggettività, ma piuttosto è il momento di una piena riaffermazione di responsabilità: "libertà assoluta vuol dire responsabilità assoluta" (p. 182). Attività interiore, l'arte - anche quella fantastica - trova infatti il suo scopo vero e centrale nella comunicazione, nella capacità d'intrecciare una fitta rete di rapporti con altre soggettività individuali. Il viaggio verso l'interno si rivela tragitto verso la comunità: "l'unica strada che porti all'autenticamente collettivo, all'immagine viva e significante in ognuno di noi, sembra passare per !'autenticamente personale" (p. 69). Ecco allora che per illustrare la fisionomia del processo di scrittura sarà chiamata l'immagine di un'esplorazione. Non più dunque il quadro di una lotta, come si era visto in King, ma l'idea di un itinerario, di un'indagine: "non sono un ingegnere, ma un esploratore. Earthsea l'ho scoperta" (p. 42). E il territorio di questa esplorazione, di questa tutta particolare transizione dall'individuale al sociale, lo spazio proprio della narrativa fantastica e del suo "linguaggio della notte", è l'inconscio collettivo. A fare da sfondo alle idee della Le Stephen King DISCUSSIONE Guin sull'arte sta infatti la reinterpretazione di alcuni concetti junghiani, inseriti originalmente in una prospettiva certo aperta alle componenti istintive e irrazionali dell'esistenza, ma in una chiave equilibratamente umanistica. La sua narrativa appare, è vero, spesso costruita su un gioco di opposizioni (si pensi solo a/ reietti dell'altro pianeta o a La soglia): ma, in conclusione, la contraddizione si rivela la via per mettere in luce - seppure attraverso un faticoso processo di conquista - l'equilibrio fondamentale della realtà. La sua scrittura, certo, parla delle ferite della condizione umana, ma tende a presentarle come suturate o suturabili: per meglio dire, quelle ferite non minacciano l'esistenza dell'organismo, ne costituiscono un dato fondamentale, anzi, la prima ragione interna di vitalità. In questa prospettiva, gli schemi narrativi del viaggio e del racconto d'iniziazione vengono impiegati per costruire un rapporto con il lettore che lo alleni progressivamente alla comprensione di sé e dell'altro: all'apparente strategia d'evasione della narrativa fantastica viene attribuito un non secondario significato educativo. Gli scrittori, dice P. Highsmith, "sono poco provvisti di gusci protettivi e cercano per tutta la vita di eliminare quelli che hanno, dato che i colpi e le impressioni più varie sono il materiale di cui ·hanno bisogno per lavorare" (p. 28). Fornito di "antenne invisibili" (p. 15), lo scrittore ha, dunque, nella "ricettività" (p. 28) e nell' "apertura della mente" (p. 8) le sue doti migliori, che si manifestano in un'attenzione acuta verso la vita e in una disponibilità a ricostruire l'eco emotiva delle esperienze osservate. D'altronde, non molto diverso è il comportamento che la Highsmith cerca di sollecitare nel lettore con i propri romanzi. La narrazione diviene cosi lo strumento attraverso il quale il personaggio viene offerto, con intensità e insistenza, allo sguardo e all'ascolto del lettore. Si pensi alle scene emblematiche, in I/ grido della civetta, nelle quali il protagonista Robert Forrester, nel buio all'esterno della casa solitaria, osserva non visto attraverso i riquadri luminosi delle finestre i movimenti di Jenny Thierholf: quasi una mise en abfme dell'atteggiamento che il lettore è invitato ad assumere verso i personaggi. Ma, per parte sua, chi scrive non tende in alcun modo a suggerire una valutazione morale delle azioni descritte, piuttosto è al lettore che, dopo aver osservato, viene lasciata l'opportunità di esprimere, se ritiene, un proprio giudizio. Un compito in realtà tanto più difficile in quanto la singolarità degli eventi conduce sovente a revocare in dubbio la validità stessa delle tradizionali categorie morali. In sostanza, al lettore è proposto un ruolo attivo, ma senza tentare di predeterminare i contenuti delle sue riflessioni effettive. In questo quadro le convenzioni del suspense, la componente di azione violenta che esse implicano, non valgono di per sé, ma sono il mezzo mediante il quale si innesca e insieme diviene esteriormente visibile un ricco gioco psicologico, dove la frequente anormalità della situazione funziona come una sorta di lente d'ingrandimento che consente di cogliere anche impietosamente gli aspetti dell'interiorità dei protagonisti. E in effetti ciò che più colpisce nei lavori della Highsmith è la capacità di raffigurare in modo inquietante e con lucidità non consueta la faccia buia dell'esperienza quotidiana.

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