DISCUSSIONE SCRITTORIDI GENERE Bruno Falcetto "Non c'è alcun segreto per una scrittura di successo se non l'individualità - o chiamiamola personalità" scrive Patricia Highsmith, e si potrebbe partire da qui per ragionare intorno a tre libri usciti in ordine sparso nel corso dell'ultimo anno che raccolgono le riflessioni sul proprio lavoro e le idee sulla letteratura di alcuni fra i più interessanti dei contemporanei autori "di genere": Suspense. Pensare e scrivere un giallo, appunto, di Patricia Highsmith (trad. di F. Cagnoni e S. Coyaud, La Tartaruga edizioni, pp. 123, L. 12.000), Danse macabre di Stephen King (trad. di E. Turchetti, Edizioni Theoria, pp. 167, L. 8.000) e Il linguaggio della notte. Saggi di fantasy e fantascienza di Ursula K. Le Guin (trad. di A. Scacchi, Editori Riuniti, pp. 223, L. 15.000). Un'affermazione che può suonare provocatoria solo alle orecchie di chi - quando si parla di libri di successo, di scritture di genere e di consumo o di opere paraletterarie - usa ancora rifugiarsi sotto il logoro ombrello di vecchi clichés a base di ripetitività standardizzata e onnipotenti progettazioni editoriali, ma che è di certo invece la più adatta a segnare il cammino di un primo rapido tentativo di osservare da vicino la figura dell'autore di genere, per poi magari di lì muovere oltre. Personalità, dunque. Ed è proprio l'impronta individuale quella che si coglie con maggiore evidenza da una lettura incrociata dei libri in questione: diverse le forme, i "progetti" dei volumi - dalla raccolta più o meno compatta e strutturata di saggi, al particolarissimo "manuale" di scrittura -, diversi i generi a cui gli autori fanno riferimento (horror, fantascienza e fantasy, suspense), diverso il tono della scrittura che riflette la differenza dei temperamenti, anche se sulla base di una comune scelta di linearità scorrevole di frequente solcata da una vivace vena d'umorismo: con un certo gusto per il paradosso e l'efficace provocazione nel caso di King, all'insegna dell' understatement e di una pacatezza tagliente quello della Highsmith, più alterno quello della Le Guin, a volte felicemente graffiante, a tratti invece forse un po' troppo tributario del buon senso per mordere come dovrebbe. Ma in tutti e tre i casi, ed è bene dirlo, ci si trova di fronte a libri che, oltre ad essere interessanti, sono piacevoli da leggere; unico rammarico, il fatto che l'edizione italiana di Danse macabre sia tanto ridotta rispetto all'originale (che raggiunge quasi le cinquecento pagine) e dia così un'immagine solo parziale della vivacità delle riflessioni di King. In questi testi, quindi, non si esita a cogliere a ogni livello dell'operazione il profilo di fisionomie tutt'altro che stereotipe, ma al contrario sempre corpose e ben rilevate. E soprattutto - ed è il fatto più "scomodo" e su c,ui occorre maggiormente riflettere - da questi volumi traspare una volontà non casuale di meditare sui modi e il valore della propria attività che troppo spesso, a torto, si ritiene esclusiva prerogativa del romanziere colto. Viceversa non di rado la coscienza letteraria di questi scrittori appare più solida e all'altezza della complessità dell'attuale quadro letterario di quella di molti loro colleghi "di qualità". Immagini di scrittura e volti di lettori Il romanzo è "come un enorme castello scuro che deve essere attaccato, un bastione da espugnare con la forza o con l'inganno. Caratteristica del castello è di sembrare aperto. (... ) Il guaio è che in realtà esiste una sola via d'accesso sicura; ogni altro tentativo provoca l'annientamento improvviso a_opera di un marchingegno segreto" (pp. 122-123). E King a parlare e a presentarci la scrittura come impresa non garantita, non interamente padroneggiabile, in fondo anche un po' rischiosa. E del resto nemmeno la conclusione dell'opera garantisce la serenità dell'autore, se terminare il libro - come ci racconta per il caso dell'Ombra dello scorpione - vuol dire essere assaliti da fantasie n_ellequali sembra di sapere che "da un momento all'altro sarei morto, proprio lì sulla Third Avenue. Quelli dell'ambulanza mi avrebbero trovato lungo disteso sull'asfalto, fulminato da un infarto, insieme al mio mostruoso manoscritto, trionfante nella sua confezione di carta Sarah Wrap, accanto alla mano che ne aveva mollato la presa: era lui il vincitore" (p. 127). Dietro a queste immagini, filtrato da uno humour autoironico, si intravede un atteggiamento quasi combattivo, per il quale scrivere è qualcosa che sta a metà tra la lotta e il corteggiamento di un'ispirazione che, se affonda le sue radici nell'individuo, appare però anche dotata di una sua capricciosa e inquietante realtà autonoma. Quasi come uno dei molti oggetti quotidiani e poi d'improvviso animati e insidiosi che popolano le pagine dei suoi libri: come la Plymouth del '58 Christine o l'emblematica macchina da scrivere del racconto I Fornit. Ma se l'ispirazione è difficile da afferrare, non per questo lo scrivere si riduce a un fatto di sensazioni impalpabili e improvvise e privilegiate illuminazioni. Molte altre sono le facce dell'attività letteraria e King ne è perfettamente consapevole. Chi scrive horror-stories lavora su una base solida: il materiale per costruire i racconti è infatti in larga parte depositato nel magazzino della tradizione del genere. E di quella tradizione King è attento osservatore e abile manipolatore, come testimoniano, per esempio, le acute pagine di Racconti del tarocco. Qui lo scrittore analizza tre libri chiave del genere - Frankenstein, Dracula, Jekylle e Hyde - per indagare la genesi di tre dei maggiori archetipi del racconto dell'orrore (e del moderno immaginario americano): la cosa senza nome, il vampiro e il licantropo. La via per il castello oscuro, la strada per la scrittura, passa proprio da queste parti: attraverso una memoria di genere alla cui formazione più che l'opera di maestri riconosciuti dell'arte letteraria sembra aver contribuito il lavoro di una miriade di artigiani: dallo stesso Stocker al gruppo degli autori di "Weird tales", per arrivare a un Ira Levin. Ma più di tutto questa memoria è, per King, intrisa di motivi e richiami cinematografici. "È il cinema che ha fatto tutto" (p. 34), è il cinema che ha funzionato come "una specie di sala culturale degli echi" (p. 33), dando peso e consistenza sempre più evidente a figure della fantasia che ormai costituiscono un elemento insostituibile del nostro paesaggio mentale. E quindi, sembra voler suggerire lo scrittore, il singolo testo trova la sua forza e il suo fascino non solo dentro di sé, ma anche per il rifrangersi in esso di questo universo d'immagini generato dall'incrociarsi di suggestioni letterarie e cinematografiche (e si può convenirne con lui, ma tenendo presente che se il discorso vale per la suggestione e il fascino di un testo, per quanto riguarda il suo valore le cose stanno diversamente: il vero problema, com'è ovvio, non è quello della presenza ma della qualità di archetipi e citazioni). "Creare l'orrore equivale a paralizzare un avversario con le arti marziali: si tratta di trovare i punti vulnerabili e poi metterli sotto pressione. Il più ovvio punto di pressione psi-
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