Linea d'ombra - anno V - n. 19 - lug./ago. 1987

DISCUSSIONE cie di classicismo comunicazionale. Intendiamoci, è un'ottima cosa che la Tv permetta di rivedere tanti filmati del passato e che la vita culturale delle grandi città si sia enormemente arricchita di offerte retrospettive. Ma non è questa l'intenzione dell'operatività classicista. Come il classicismo sette-ottocentesco non aveva tanto interesse all'antico, quanto alla difesa dei suoi principi, così il classicismo degli attuali operatori appare soprattutto interessato alla sua propria immagine. L'attuale irrigidimento del tempo dell'arte determina delle conseguenze che definirei politiche. Nel segno del classicismo, siamo invasi da forme del passato, rispetto alle quali il presente si pone in termini o di restauro o di esibizione spettacolarizzatrice; e comunque con una capacità percettiva sempre meno vigile, dal momento che il prodotto d'arte risulta quasi sempre intrecciato con il sottoprodotto (penso alle combinazioni televisive, come all'immancabile banalizzazione dei classici nei nostri teatri). Per cui alla fin fine è l'espressività comunicazionale, con la sua superiorità tecnologica, che prevale. . In questo contesto si collocano anche le riprese spinose, tipo Beckett e il futurismo. Operatori e consumatori hanno interesse per volontà di potenza gli uni, e per piacere diversivo gli altri - ad allargare il più possibile il gioco classicistico. Cinque-dieci anni fa si privilegiavano le riproposizioni a effetto: dalla letteratura erotica alla cultura nel fascismo (esempio, la mostra milanese sugli anni '30); nei nostri anni, più distanti dal tempo delle lotte, si scelgono i fenomeni di rottura. E lo stesso passato della sinistra è ormai al vaglio (la narrativa della Morante, la pittura informale). Ora, quando si fanno discorsi di questo tipo, si rischia di generalizzare arbitrariamente, di sostituire la consequenzialità del ragionamento alla contraddittorietà delle cose. Anche al livello delle impressioni quotidiane, tuttavia, si ha la sensazione che sia in atto un paradossale spossessamento, per cui si derealizza il sovversivismo espressivo del passato, nel mentre lo si divulga. E non è facile prendere le misure, in senso critico, rispetto a questa tendenza. Scandalizzandoci in nome del "vero" Beckett, ad esempio, non coglieremmo la novità dell'attuale spossessamento: più di un secolo fa Marx osservava che la rapina del passato è per il capitalismo un'ordinaria fonte di legittimazione. D'altro canto, è innegabile che le iniziative degli operatori istituzionali sono spesso interessanti. Perciò, per esercitare una critica efficace, non converrà rifiutarsi alle operazioni classiciste, bensì interrogarsi sulla consistenza reale del loro dominio. È opportuno tornare a parlare di arte, benché negli anni delle lotte questa parola sia stata messa sotto condizione. Pensando all'arte, in senso moderno, capiremo forse perché gli operatori istituzionali non sono, di fatto, i leader culturali che vorrebbero essere. Mostre, cicli e rassegne si susseguono, ma l'operatore sembra condannato a ricominciare ogni volta da zero. Il rapporto passato-presente imposto dal classicismo non sembra controllare compiutamente né le ragioni del passato né quelle del presente artistico. I classici - ha osservato Fortini - producono all'uso un doppio movimento: da un lato si prestano docilmente, perché "sono stati successivamente abbandonati dalle diverse forme di energia antagonistica che furono capaci di incarnare lungo le generazioni"; dall'altro, essi esercitano una funzione demistificatrice, in quanto ia loro trasmutazione mortale, - il venir meno del loro antagonismo - educa alla contemplazione della morte di quanto nel presente sembra pieno di vita. Ciò vuol dire che i classici sono anche nemici mortali, alla lettera, di quello che abbiamo definito classicismo comunicazionale. L'operatore, con i suoi .restauri e le sue spettacolarizzazioni, tende ad addomesticare le opere del passato, ma queste, a loro volta, tendono a negare il risultato classicista. Alla mostra veneziana l'aura classicista dell'insieme era demistificata dalla classicità di alcune opere. Il fatto che i classici non sono del tutto innocui impedisce al classicismo di occupare tutto lo spazio, di presentarsi come il corpo del problema, di essere l'espressività del nostro tempo. D'altro canto, l'esperienza artistica attuale prodotta nel presente, non può essere del tutto surrogata. Dicevano i surrealisti che l'opera d'arte non ha valore se non è "traversata" dal futuro. Gli operatori istituzionali, che agiscono a partire dal consumo, possono considerare questa dimensione in termini di politica culturale, cioè di "progresso". Ma non è la stesa cosa: sfugge loro il carattere oscuramente anticipatore, l'elemento artistico che produce esigenze in divenire. È questa la maggior debolezza del classicismo comunicazionale: come commisurarsi all'arte non blasonata, che anzi cerca di sottrarsi all'atmosfera del passato? Per gli operatori è un tormento dover fare i conti con le opere che sfuggono alle vecchie classificazioni. E allora essi ricorrono a classificazioni estrinseche: di tipo anagrafico, come nel caso delle collane per giovani romanzieri; o di genere, come nel caso dello "spettacolo di sperimentazione" che al Ministero vuol dire spettacolo senza passato. Classificazioni deboli e fraintenditrici. L'arte vivente non può essere solo un fenomeno di età o di genere. E classificazione restrittiva anche per l'arte di fattura tradizionale: chi ha detto che anch'essa non possa sperimentare? Il classicismo comunicazionale ha saputo coinvolgere molti artisti come ceto specializzato. Inoltre ha saputo trasformare in consumi tanta arte del passato e tante istanze dell'espressività diffusa degli anni '70. Ma questa sua presa sociale è altra cosa dall'esperienza dell'arte. Esiste un confine oggettivo oltre il quale il classicismo risulta distaccato,

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