sketch con un testo di Beckett, Finale di partita: evento clou per il consumatore teatrale. E il consumatore qualsiasi, che in altri tempi non si sarebbe occupato d'arte, ha trovato il suo avvenimento da non perdere nella mostra del futurismo a Venezia. Di questi fatti, a suo tempo, si è già detto tutto il bene possibile, sottolineando l'eccezionalità dell'offerta e l'ampiezza della partecipazione; e tutto il male possibile, in polemica con il qualunquismo degli operatori istituzionali. Il discorso che stiamo facendo comporta però una domanda ulteriore: perché Beckett e perché il futurismo? Perché riportare sulla tavola del consumismo espressivo le esperienze di rottura del1'arte novecentesca? Domanda problematica, dato che sia Beckett sia il futurismo erano riproposti in modo asettico e astorico, come se Beckett non fosse stato il profeta del nichilismo teatrale e come se il futurismo non fosse nato dal più viscerale rigetto dell'arte perbene e non avesse avuto rapporti con il socialismo rivoluzionario e con il fascismo. Dunque, perché scegliere quei fenomeni spinosi, se l'offerta andava nel senso della semplice degustazione? Per arrivare a esibire uno spettacolo e dei quadri godibili, si sarebbe potuto seguire un percorso meno tortuoso. Ma allora l'esito non sarebbe stato clamoroso, come non sarebbe stato clamoroso - nel suo piccolo - l'esito della festa milanese, se non si fosse offerta come appuntamento segreto e d'autore. li consumismo espressivo attiva contemporaneamente due piani, uno prevalentemente ideologico e l'altro prevalentemente percettivo. La mostra del futurismo, nel mentre offriva alla percezione una quantità di opere belle e non belle, trasmetteva un ordine ideologico di altro tipo, riguardante il visitatore in quanto consumatore abituale di modernità. Assunto il visitatore come cittadino del futurismo realizzato, con le sue macchine, e i suoi servizi computerizzati, veniva da sé che la mostra non dovesse occuparsi degli artisti futuFoto di Maurizio Buscarino. DISCUSSIONE risti nella loro storia contingente: quello che contava era il tempo del consumatore. Il futurismo diventava passatismo della società esistente. È scoppiata l'epidemia degli anniversari. Di colpo, con un salto all'indietro, ci siamo trovati contemporanei di Pirandello perché era il 1986. L'occasione ha portato con sé qualche dono culturale importante, ma l'avvenimento principale cui abbiamo assistito è stato un nuovo, più ricco matrimonio della tecnologia comunicazionale con il museo: quanto pirandellismo è stato rimasticato, a dispetto dell'arte vivente che Pirandello raccomandava. Scrivendo nel 1987, a cose fatte, non si può dire che la vita dell'arte ne abbia tratto giovamento. Al contrario. Gli operatori istituzionali dedicano sempre meno attenzione all'espressività del presente. Nel loro paradigma l'espressività del presente coincide sostanzialmente con la modalità comunicazionale: come a dire che l'arte è stata, e si tratta di ricomunicarla creativamente. Sarebbe dunque il passato, e non il presente, il tempo dell'invenzione artistica. Il passato che si offre docile all'uso comunicazionale, e il passato come dimensione in cui l'arte appare definitivamente valutata. Di qui la tendenza a fare del passato, di tutto il passato ma soprattutto di quello novecentesco, un serbatoio di risorse al servizio dei recuperi della Tv, delle mostre memorabili, degli spettacoli "ben fatti" d'opera e di prosa, dei rilanci editoriali: in sintesi, di una spe-
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