Linea d'ombra - anno V - n. 19 - lug./ago. 1987

DISCUSSIONE spesso degli illusi, scrivevano senza sapere che cosa e come scrivere. Ma erano, anche, indubitabilmente, delle brave e innocue persone che vogliono attenzione e ancora attenzione. Un'attenzione ovviamente benevola, una comprensione più che fraterna e paterna: vogliono un'affettuosa comprensione materna. Ed io li privavo di tutto questo! Lett. - Ancora una volta, mi pare che tu stia esagerando. Tu pensi solo a te stesso e ai poeti! E ai !ettori non ci pensi? Crit. - Non posso che darti ragione. E infatti proprio dal punto di vista dei lettori che cercavo di mettermi. Volevo fare per loro (e per me) qualcosa di utile. Ma poi, quando si comincia ad avere a che fare con decine e decine di nomi, con centinaia di pubblicazioni, ci si sente sommersi, se ne subisce l'influenza. Si perdono di vista i lettori, il vero pubblico, e si finisce per cadere di nuovo nel sortilegio del Pubblico della Poesia, di quel pubblico cioè che è ormai molto numeroso pur essendo costituito solo da persone che scrivono poesie. Così mi sono arreso. Lett. - Ma no, non devi farlo! Non devi arrenderti e rinunciare! Bisogna pure che qualcuno abbia il coraggio di fare un'antologia scegliendo cinque o dieci autori fra i cinquecento o mille che in vario modo sono in circolazione! Dài, riprendi coraggio, per favore. Se non lo fai tu, lo farà qualcun altro ... Crit. - Purtroppo quest'ultimo è un pessimo argomento. Dovrei impedire a qualcun altro di fare la stessa cosa che farei io? Quello che conta non è l'autore, è il libro. Il fatto è che non vedo chi potrebbe fare al posto mio esattamente ciò che io avrei fatto ... Ma soprattutto, in questi ultimi tempi mi è venuta in mente un'idea di cui non riesco a liberarmi: e cioè che la poesia è ormai un genere letterario che si sta svuotando, essendosi dilatato inverosimilmente. Cioè: si è scritto inverosimilmente tanto, e si è detto incredibilmente poco. E così la poesia si è trasformata in quel genere letterario nel quale noi;i si riesce a dire quasi niente, o sempre meno. Un linguaggio quasi del tutto privo di regole stilistiche, usando il quale ci si può illudere facilmente che qualsiasi cosa si faccia, non si sbaglia. O, se si sbaglia, nessuno se ne accorgerà. O, seppure se ne accorge, non lo dice. Siamo davvero al di là del Moderno! Gli insopportabili e biliosi dittatori letterari, i fanatici del Mestiere e i profeti della Rivolta, uomini come Ezra Pound e André Breton, sono davvero gente di un'altra epoca! Ora è il tempo dei · parroci e dei vescovi della poesia: pascolano il loro gregge di anime portando ovunque le loro ipocrite parole di consolazione. Poeti e poesia sono entrati così in una fase di senescenza precoce, sempre più precoce. (Prova a leggere, per esempio, se ci riesci, i due ultimi "poeti dello Specchio" Cucchi e Magrelli, e capirai meglio di che cosa parlo). Stando così le cose, nessun poeta del passato, puoi credermi, né Leopardi né Gozzano, né Puskin, né Majakovskij, né Heine, né Benn, se dovessero scrivere oggi, se dovessero dire oggi tutto quello che hanno saputo dire ai loro tempi nei loro versi, si servirebbero più del genere letterario chiamato poesia. Il linguaggio poetico è diventato informe per mancanza di contenuto, ed è troppo spesso insignificante per mancanza di cura e di passione artistica. Inoltre, come disse parecchi anni fa Edmund Wilson, "il verso è una tecnica in via di estinzione". È probabile perciò che quei poeti che ci hanno lasciato in eredità le loro opere e la loro idea di poesia, oggi sarebbero dei saggisti, scriverebbero in una eccellente prosa, allegra e malinconica, piena di idee e di immagini, e cercherebbero di sollevare la prosa libera a quell'altezza artistica che una volta, tanto tempo fa, e da allora mai più, fu raggiunta dal verso. Lett. - È una curiosa idea, ma in effetti non so darti troppo torto. L'altro giorno ho letto un articolo di quel noto critico su un nuovo libro di poesie e sono letteralmente cascato dalle nuvole, da quelle stesse nuvole su cui il critico stava seduto: parlava di quel libro con le medesime parole assorte con cui avrebbe parlato di Poliziano o di Omar Khayyam, di Hoelderlin o di Gongora, di Pindaro o di Firdusi. Crit. - È questo infatti il guaio della critica attuale: riversa su autori deboli e dubbi le stesse formule che ha elaborato per definire autori classici. Del resto una critica che non è riuscita a trovare differenze significative fra autori come Mallarmé e Kafka e autori come Borges e Manganelli, non può che combinare disastri. È una forma storicamente determinata di idiozia, a cui mi pare difficile rimediare. Gli equivoci ormai sono talmente enormi che se uno volesse fare il critico militante dovrebbe ogni volta, a proposito di ogni libro e di ogni autore, ridisegnare l'intera geografia letteraria del Novecento. Lett. - Stanno davvero così le cose? Crit. - Purtroppo, sì. E io non me la sento di compiere un'azione correttiva. Chi sono io per dire ad alta voce che cosa penso di loro? Lett. - È vero. Ma chi sono loro, perché nessuno possa dire che cosa sono realmente? QUATTROPENSIERI ANTICLASSICISTI Claudio Me/dolesi Rapporto produzione-consumo sembra funzionare per la musica e il design industriale, in parte per il cinema, ma non per le arti tecnologicamente povere. Per queste ultime c'è una strana contraddizione. Gli operatori parlano di consumi in crescita: la gente - si dice - non fa che mangiare espressività. Eppure viviamo in anni di penuria artistica. Come è possibile? Evidentemente i/ consumo si è distaccato dalla produzione. Cosa si consuma? Sazio com'è, il consumatore di espressività non è interessato tanto al prodotto quanto al gioco delle sue apparenze. Leggo su "Repubblica" di una festa allestita da una contessina milanese come evento "d'autore", i cui invitati erano diffidati dalle imitazioni. La formula in realtà era la stessa delle serate con musica e spogliarello e con un tocco di aggressività erotico-militaresca. Ma era stato predisposto anche qualche happening, e il titolo - "festa segreta" - faceva sperare in un andamento alternativo. Risultato: all'appuntamento si erano presentate mille persone. Se il biglietto d'invito si fosse limitato ad annunciare una festa rock con spogliarello, pochi si sarebbero scomodati, e tanto meno il recensore di "Repubblica". Dunque la festa, di per sé noiosa, era riuscita in ragione dell'aspettativa che il rock e lo spogliarello potessero sdoppiarsi in qualcosa di noto e di ignoto, di consumistico e di segreto. li gioco delle apparenze era prevalso. Senza produzione d'autore, si era determinato lo stesso un evento denominabile festa d'autore. L'abitudine sostanzia il consumo. Essa conferisce il gusto. Stesse comodità, stessi sapori. Ma il consumatore di espressività non vorrebbe essere un tradizionalista tout court. Gli piacciono i segni alternativi. Due cartelle di commento, scritte da una personalità eccentrica, possono trasformare una serie di foto in un libro prestigioso. L'anno scorso, Chiari e Rascel hanno sostituito i loro

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