Linea d'ombra - anno V - n. 19 - lug./ago. 1987

72 spossati diciamo "un caldo da 0morire", forse stiamo parlando di qualcosa che ci allontana dal nostro presente determinato, che ci trascina indietro e lontano. E mentre la sera, per scampare al caldo che si è accumulato in casa, passeggiamo non importa dove strascicando i piedi (finalmente in estate si può andare da nessuna parte, ma semplicemente andare), stiamo anche aderendo a una percezione di dissoluzione, di scioglimento di quanto ci definisce e circoscrive nell'esperienza ristretta delta nostra individualità. Una libertà, questa, che nessun'altra stagione riesce a darci. "C'è qualcosa nei giorni dell'estate/ che mi riempie di solennità", dice Emily Dickinson in una poesia in cui celebra l'estate. Ed è vero che questo senso di solennità ci sfiora più volte, se solo gli facciamo spazio. Infatti anche noi celebriamo questa stagione quando così, semplicemente e totalmente ci immergiamo nell'esperienza di viverla anziché farla passare. Forse ci piacerebbe coronarla con qualche festa pagana (magari dei fatò, oppure delle purificazioni con rugiada). Ma queste sono labili fantasie, suggerite proprio dalla nostra incapacità di fare festa, di trasgredire ai dettami produttivi. Una nostalgia del non vissuto. Allora non ci resta che ripiegare sulle manifestazioni che il Comune ci offre e che peraltro rispecchiano abbastanza fedelmente la nostra inettitudine al riguardo. Ma l'estate resta. La sua luce onnipresente, come se non avesse fonte. Il suo calore e il nostro sudore: un botta e risposta tra il nostro corpo e il sole. L'afa greve di certi giorni, che contamina gli odori e ci contrasta il respiro. Ma poi il segnale di liberazione del tuono che rotola e scoppia, il rovescio di pioggia e l'asfalto asciutto subito dopo. E subito asciutte anche le .abbondanti immondizie, che sembrano partecipare dell'eccesso proprio dell'estate. Disseminate a zone, come progetti collettivi di arredo urbano. Spostiamo lo sguardo e abbiamo la visione dell'estate mercantile. Le vetrine più che merci espongono prezzi, più è bassa la cifra più è grande il cartellino. Più grande è il cartellino più siamo vulnerabili. Ad esempio, novemilanovecento è un cartellino quasi irresistibile. Così l'estate. Una stagione breve per noi, che però non ci dà il senso dell'effimero. Ci sentiamo piuttosto come trasferiti su un terreno stabile, governato dalla potenza del sole. Si può pensare che una stagione così finisce? Troppo logico. Vogliamo solo pensare che l'estate si ripete. ) INCONTRI IL CUOREE L'IMPROVVISAZIONE Incontrocon EugenioColombo a cura di Filippo La Porta Eugenio Colombo, nato a Roma trenta/re anni fa, polis{rumentista (sassofono, flauto, ecc.), compositore "di confine" (traJa-a., musica colta ed etnomusicologia), è una delle personalità più interessantidel panorama musicale non solo romano. Dal punto di vista della ricerca strumentale ha applicato e rielaborato alcune tecnicheparticolari, come la "respirazione circolare" (adoperata dall'americano Roland Kirk ma anche dai suonatori sardi di launeddas), una respirazionedi probabile originearaba che permei/e di non interrompere mai il suono; e poi delle tecniche polifoniche che consentono di fare degli accordi su uno strumento ad una voce sola come il sassofono. Dopo varie collaborazione discografiche ha reali-a.alo in questo periodo il suo primo 33 giri, Curriculum vitae. Insegna sassofono al Conservatorio di Matera. ' Puoi dirci come hai cominciato a suonare? Bé, direi tardi, dopo i 18anni, e con il flauto. Mi considero fondamentalmente autodidatta, anche se poi nel 1982 mi sono diplomato al Conservatorio di Frosinone. Facevo rock e in un secondo momento jazz, ma forse potrei dire retrospettivamente che faccio da IO anni sempre la stessa cosa. In seguito è venuto il sassofono e poi il canto. Ma mi ritengo soprattutto compositore. Per me il vertice di un lavoro sta sempre nella contestualità di un prodotto. Nel 1974partecipai con altri musicisti della mia generazione (Urbani, Vittorini, Tommaso) a uno "storico" corso di jazz tenuto da Giorgio Gaslini a Santa Cecilia. Da allora ho fatto varie cose, anche tra loro diversissime,ma sempre a cavallo tra jazz e musica contemporanea (oltre a un'esperienza in un'orchestra di teatro d'opera, a Napoli per la Turandot). Ho lavorato con Alvin Curran, Giancarlo Schiaffini, Misha Mengelberg, con la soprano Michiko Hirayama, ecc. Ho fatto pure molto concerti da solo, eseguendo musiche mie o di altri (Serio, Scelsi, ecc.). Ritieni che oggi vi sia una regressione della capacità di ascolto musicale? Direi proprio cli sì. La gente tende ad ascoltare male e in modo più passivo. Con i media, con la producibilità avviene qualcosa che impigrisce l'ascolto. Abbiamo meno memoria. I nostri nonni sapevano a memoria le arie cli Verdi, di Puccini, ecc. Credo anche, ma questo è un'altra discorso, che bisognerebbe conoscere a memoria la musica che si esegue (il che fa stabilire un rapporto diverso con l'ascolto). In una recente esperienza discografica mi è stato chiesto di non leggere la musica, di imparare il brano a memoria. Ed effettivamente soltanto quando so eseguire un "pezzo" così, a occhi chiusi, possono avere con quel "pezzo" un rapporto intenso, farlo diventare mio. La musica scritta non c'è sempre stata né esiste dappertutto; scrivere la musica aiuta certo la memoria, ma non è l'unico modo, come ci indurrebbe a pensare la nostra presunzione eurocentrica. Non credi però che con la riproducibilità della musica si aprono possibilità nuove? Certo, potrei disporre cli più cose, ma con un effetto generale di impoverimento. Oggi c'è il culto della Hi-Fi, anche se molti musicisti che conosco non hanno nemmeno un apparato di produzione ... Comunque non intendo condannare la canzone in sé. Le canzoni di Puccini o i Lieder di Schubert sono bellissimi. li punto è, come sempre, quale canzone? Che però ci sia un impoverimento, una degradazione dell'ascolto, mi pare innegabile. Vai a un concerto di jazz, per es. di Herbie Hanckok, e il pubblico, peraltro foltissimo perché vedere Hanckok è ormai uno status symbol, applaude dopo il tema e non dopo l'improvvisazione. Una assurdità, se pensi che il jazz è soprattutto improvvisazione; che insomma i temi, le melodie in sé sono spesso povera cosa. Ecco, a proposito del ja-a., cosa ne pensi? Credi che oggi sia un linguaggio universale? No, non lo credo, e comunque sono solo sempre i media che fanno la "universalità" (come avviene ben più vistosamente con il rock). Il jazz è una musica per così dire "puttana", che prende da tanti stili per rendere in un suo stile; ma è certo una musica complicata, difficile, legata a un buon ascolto, e fondata, ripeto, sull'improvvisazione. Trovo singolare che oggi diventi a un tratto celebre Round midnight di Thelonius Monk, sulla scia dell'omonimo film di Tavernier, come fosse, che so, la Marcia turca di Mozart. No, la grandezza cli Monk è di un genere differente da quella di Mozart: risiede prevalentemente nella sua improvvisazione. Come d'altra parte, nella musica indiana, dove ci sono sempre un suonatore di sitar (e cantante), un percussionista e un suonatore di tampura: la musica è poi legata al momento contingente. In questo senso mi interessano di più i dischi di jazz dal vivo. Mi sembra poi che oggi in Italia, tra i nostri jazzisti, manchi proprio il momento della "espressione". Forse perché, per I' "espressione", è necessario qualcosa di exlramusicale, qualcosa che non ha a che vedere direttamente con la tecnica. Nel cosidetto attuale "mainstream" (o se vuoi nuovo be-bop) c'è solo molta velocità. Ma insomma il ja-a. ci appartiene o no? Be', io faccio anche jazz, ma mi pare indubbio che non ci appartenga. O meglio: oggi tutto ci appartiene e nulla ci appartiene. La nostra tradizione sarebbe il melodramma, la cultura popolare regionale. Ma ormai siamo tutti apolidi, alienati, senza radici. Dei brani folklorici che Carpitella e Lomax raccolsero pazientemente nel 1953-54oggi non è rimasto quasi più nulla.

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