ritiene un apporto essenziale del cinema delle donne (come non sottomissione al dato di realtà, alla falsa oggettività), capace di gettare uno sguardo "al di sopra delle parti" pur partendo come tutti dalla propria "parzialità" sessuata, di far agire, cioè, in modo altrettanto significativo registri diversi, giacché diversi sono i soggetti: uomini e donne che a differenza della protagonista non possono fare dell'assenza di casa una ricerca, ma la subiscono come una necessità, che non si esprime allo stesso modo. Più schermata dalla riflessione quella maschile, più immediata e solitaria quella femminile. L'ultimo giorno del festival ha offerto un'importante occasione di dibattito, giacché è stato affrontato il tema del rapporto con !e istituzioni. Una funzionaria RAI ha aperto il dibattito su donne e televisione. A suo parere, le donne che lavorano all'interno dell'azienda non hanno nessuna possibilità (né desiderio, talvolta) di imporre argomenti riguardanti il proprio sesso, che vengono considerati argomenti professionalmente poco qualificanti. Il problema di dar spazio alle donne all'interno dell'azienda, a suo avviso, è abbastanza urgente, ma anche di difficile attuazione, giacché gli uomini occupano tutti i posti chiave e non sono disposti naturalmente a cedere nemmeno di un pollice. Più fiduciose nel rapporto con le istituzioni si sono rivelate in fondo le cineaste. Isabella Bruno e Giulia Ciniselli hanno raccontato come a Milano sia relativamente facile trovare qualcuno che (se se ne conquista la fiducia) sia disposto a finanziare entro certi limiti dei film amatoriali, beninteso, senza nessun guadagno per gli autori. Di parere nettamente opposto, invece, Lina Mangiacapre ed Emanuela Piovano. Sia l'una che l'altra non credono nei casi più o meno fortunati di generosità da parte di qualche mecenate. Il film di Lina Mangiacapre è nato grazie all'articolo 28, con molta fatica ed in mezzo a molte difficoltà, certamente in ritardo anche rispetto ai tempi, immerso com'è nell'atmosfera degli anni Settanta. E questo ne attenua in una certa misura l'attualità, lo immerge in una realtà profondamente modificata, in buona parte ostile, come un valoroso e un po' sfortunato sopravvissuto. Emanuela Piovano ha delineato una strategia nei confronti delle istituzioni. Bisogna imparare a tradire l'istituzione per salvaguardare la propria autonomia e far passare in modo indiretto i contenuti che interessano: "parlando la stessa lingua dell'istituzione, consapevoli del travestimento riuscire a dire le nostre parole". Insomma, il problema fondamentale non sembra tanto quello di trovare più spazio per rubriche per sole donne, che alla fine ncrea una specie di ghetto, di sottocultura, quanto di riuscire ad elaborare la differenza in ogni situazione, riuscendo a trattare da que'. sto punto di vista gli argomenti più disparati, anche se non immediatamente legati al mondo delle donne. In questo senso il festival di Firenze, che l'anno prossimo sarà giunto alla decima edizione, oltre a farci conoscere film sempre di qualità, si rivela un importante strumento di dibattito e rinessione. Si spera non solo per le donne. LAMEDIAZIONE FEMMINILE Marisa Caramella Durante la recente campagna elettorale è stato impossibile non rendersi conto che i mezzi di comunicazione di massa si riferivano e rivolgevano all'elettorato femminile facendo uso di un linguaggio diverso da quello sfoggiato in analoghe occasioni. Sempre meno, radio, televisione, quotidiani e manifesti elettorali dei partiti parlavano di "questione femminile" o "problema donna", espressioni intese a circoscrivere, a confinare, a ridurre la questione dell'esistenza femminile all'interno della società a una serie di istanze la cui soluzione era vista come possibile in tempi brevi e con alcune modifiche o novità nel campo legislativo. Sempre più, invece, veniva enfatizzata la presenza numerica di candidate di sesso femminile nelle liste dei vari partiti, dando per scontato che l'appartenenza al sesso femminile fosse di per sé garanzia di rappresentatività, e arrivando, in questo modo, è quasi inutile precisarlo, al paradosso secondo il quale Ilona Staller avrebbe dovuto rappresentare le elettrici meglio che non Tortorella, o Capanna. Dimostrando ancora una volta che il cammino verso la tanto invocata ma discutibile parità è cosparso di infinite trappole nelle quali rischia di invischiarsi la lotta del movimento delle donne È quindi con grande sollievo che ·si vede in questi giorni la pubblicazione di un testo scritto a più mani dalle donne della Libreria di Via Dogana (Non credere di avere dei diritti, Rosenberg & Sellier, pp. 192, L. 16.000) che racconta la storia del movimento dagli anni sessanta fino a oggi, togliendo di mezzo una serie di equivoci e confusioni che hanno sclerotizzato per anni l'immagine pubblica del movimento stesso, e indicando un percorso a quelle donne che non si vogliono accontentare delle nicchie loro riservate, degli spazi loro concessi nel mondo (nicchie e spazi che continuano a essere segno di inferiorità e umiliazione), ma che vogliono irrompere sulla scena dell'esistenza e dominarla. La via della liberazione passa attraverso la mediazione femminile con il mondo: "Non ci si misura con un esterno altro da sé senza una struttura mediatrice", e la mediazione dev'essere sessuata, al femminile. Come la pratica politica femminista di tutti questi anni abbia portato a una conclusione del genere è quello che le autrici raccontano. Non uso a caso la parola raccontare, invece che esporre, o descrivere, perché la cosa che più colpisce di questo saggio è il ritmo coinvolgente del discorso, la precisione e il fascino, oltre che la novità, del linguaggio. Si sa bene che scrivere a più mani la storia di un movimento politico cui si è partecipato attivamente, raccontare una pratica politica, soprattutto quando, come in questo caso, si deve dare "un nome a cose che un nome non l'hanno mai avuto", è un'operazione rischiosa. I rischi si chiamano possibilità di essere fraintese, possibilità di ridurre involontariamente il discorso in atto fra donne, possibilità di magnificarlo e renderlo retorico o eccessivo. Sono rischi, questi, che corre chiunque faccia e insieme scriva di politica, e capita assai raramente di non soccombervi. Ma l'armonia, la chiarezza della prosa di questo saggio sono tali da non lasciare dubbi sul fatto che chi ha vissuto le esperienze in esso descritte non le abbia trovate esaltanti, liberatorie, o dubiti della loro realtà, faccia della pura ideologia. In un capitolo dedicato alla scrittura femminile, le autrici affermano che non esiste "grande differenza tra la ragazza che legge fotoromanzi e l'intellettuale che modella la sua vita su progetti del pensiero maschile''. Sempre di fuga dalla realtà, di estraneità si tratta. La storia dell'estraneità delle donne a ogni forma di lotta politica esistente (comprese quelle le cui istanze le riguardano da vicino) e del nascere di una pratica politica diversa e non estraniante, viene raccontata per episodi che si legano l'uno all'altro come i capitoli di un buon romanzo con la capacità di attrarre e trattenere l'at~ tenzione che possiedono solo gli scrittori molto dotati. Questa storia possiede a mio avviso un fascino pari a quello dei romanzi creati dalle grandi penne femminili cui fanno riferimento le autrici definendole "le madri di tutte noi". Questo perché racconta la realtà delle donne in termini a loro "non estranei", esattamente come un romanzo di Austen, o di Wharton. Le lettrici che non hanno in questi anni partecipato alla pratica politica femminista scopriranno cose sconcertanti: "Le cose più sconcertanti non sono quelle mai sapute prima, ma quelle prima sapute e poi dimenticate. Il disvalore sociale del sesso femminile è la brutale esperienza che fa dimenticare a una donna quello che nella sua antica ingenuità sapeva e cioè che per diventare grande, in ogni senso del termine, c'è bisogno di una donna più grande di sé". Le autrici di questo libro sono donne "grandi", per questo mi permetto di consigliare a chiunque abbia rapporti con i mezzi di comunicazione di massa e "si occupi di femminismo", di usarlo come punto di 69
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