Linea d'ombra - anno V - n. 19 - lug./ago. 1987

68 CINEMA CINEMA E DONNE Maria Schiavo Un gruppo di donne (Laboratorio immagine donna), essenzialmente tre, Maresa d'Arcangelo, Paola Paoli e Rita Monaco organizzano a Firenze da nove anni, con alterne vicende, gli incontri internazionali di Cinema e Donne. Dico "con alterne vicende" perché, iniziati nel 1978, essi attraversano un arco di tempo abbastanza ampio per registrare, accanto a certe costanti (l'attenzione ai prodotti delle donne, la cura nella presentazione dei lavori, l'organizzazione del festival) non pochi cambiamenti. Il materiale prodotto nel corso di questi anni, quaderni, cataloghi dai titoli estrosi, li cinema delle isole, Tendenze, Doppio gioco, Di fronte allo schermo (il secondo e l'ultimo pubblicati dalla Casa Usher) costituiscono le varie tappe di questa ricerca e ne assecondano l'evoluzione nella qualità degli interventi e persino nella veste tipografica. Ma sicuramente in questi incontri le costanti rimangono l'elemento più significativo: ad esempio, accanto all'attenzione per la produzione cinematografica delle varie nazioni, per la realtà del Paese oltre che per l'autrice, un'attenzione non meno grande viene riservata alle case di produzione e di distribuzione alternative. Dei film presentati a Firenze, due, entrambi del I986, uno francese, l'altro tedesco, forse esemplificano bene alcune tendenze attuali del cinema delle donne. L 'amant magmfique di Aline lssermann e Paradies di Doris Déirrie. Il primo è un tentativo di recupero di una capacità di narrare sanguigna, vagamente lawrenciana, tanto è vero che il film in Francia ha suscitato scandalo per le scene erotiche. Ma in realtà una sensibilità molto attenta, sottile, con qualche rischio di andare verso il calligrafismo, salva dalla crudezza anche le immagini più ardite. Assistiamo piuttosto a una poetizzazione del fare l'amore. Ma tra l'eccessiva cura di certi particolari e il racconto sembra esserci un qualche squilibrio che alla fine forse annoia un po' lo spettatore. L'elaborazione della differenza, di cui parlavamo prima, sembra essere in questo film affidata solo allo sguardo, alla capacità di trasformare ora nella delicata poesia delle immagini ora in estetismo l'elemento di natura. Ma questo può risultare alla fine un luogo comune del femminile se non è sostenuto da elementi meno impressionistici. li film della tedesca Doris Déirrie, l'autrice di Uomini, un film che ha suscitato molto interesse, non solo in Germania, continua la strada già iniziata col primo. È un tentativo di ricreare un genere brillante, una commedia europea che colga con umorismo non privo di affetto e di simpatia l'altro da sé, e cioè i difetti, i tic degli uomini nei loro rapporti con le donne. Anche il protagonista di Paradies è un uomo diviso tra un vecchio rapporto coniugale e una passione violenta per l'amica della moglie. Anche questo film, come il primo, tenta un'analisi dei rapporti che gli uomini intrattengono con le donne, sempre nel solito modo affettuoso e ammiccante. Ma le donne vi appaiono rigide o iperboliche come maschere, forse per l'eccessivo sforzo di attenzioni nei confronti del protagonista. La scoperta della parzialità dello sguardo, del suo essere sessuato (maschile e femminile) potrebbe essere forse affinata anche dal punto di vista comico-brillante come caduta di una pretesa universalità dello sguardo maschile (dal punto di vista della percezione del reale) ma senza che questa perdesse artisticamente la sua forza come capacità di stare al di sopra delle "parti" o da ambedue le parti (secondo il mito dell'androgino). Doris Déirrie sembra più interessata invece ad una sola "parte", quella maschile, fino al punto di rendere qualche volta grotteschi i personaggi femminili (proprio il contrario di quello che si rimproverava qualche anno fa a Margarethe von Trotta). Un altro film tedesco, sempre presentato a Firenze, che a differenza dei precedenti si colloca ancora nell'area della ricerca, è Verfiihrung: die grausame Frau (Seduzione, la donna crudele) di Elfi Mikesch e Monica Trent. È uno di quei rari film che ancora discendono dall'avanguardia artistico-politica, dal femminismo degli anni Settanta, come del resto Ein 8/ick-und die Liebe bricht aus (Uno sguardo e l'amore scoppia) di Jutta Briickner, presentato lo scorso anno a Venezia. Ma c'è in questo tipo di ricerca un pericolo di rarefazione, un eccesso di simboli che rischia di trasformare la denuncia e il grido in gelido formalismo. Sempre strettamente legato all'avanguardia politico-artistica degli anni Settanta il film di Lina Mangiacapre, Didone non è morta, che ripropone nella atmosfera della campagna di Cuma, dei Campi Flegrei, il mito della regina di Cartagine. Didone è descritta come una figura modernamente in conflitto: infatti, il fallimento include non soltanto l'amore per Enea ma anche il sogno politico di unità di una civiltà mediterranea. Diversamente radicato nella realtà degli anni Settanta ma notevole è Wanda di Barbara Loden (moglie di Elia Kazan, scomparsa prematuramente) che, presentato a Venezia nel 1970 ottenne il premio della critica internazionale. È un film tutto incentrato su una figura di donna fragile, incapace di occuparsi dei figli, di aspetto trasandato e infelice, che si mette insieme ad un bandito che ha anche un po' l'aria di un intellettuale, al quale lei ubbidisce come per necessità di natura più che per inclinazione, fino a quando la rapina da lui progettata in una banca non finisce nel sangue. Un ritratto di paure, inadeguatezze femminili senza ricerche di giustificazioni storiche, attraverso uno sguardo asciutto, un po' impietoso che non trova attenuanti e giustificazioni a quel comportamento, piuttosto lo analizza dall'interno, ma con rigore, investendo anche i personaggi maschili di questa impietosa pietà che è talvolta la rappresentazione artistica dei fatti. Accanto a questi film, notevole anche quello della libanese Heiry Strour Leila e i lupi, insieme a tutta la vera e propria retrospettiva che ha fatto vedere film come Where are my children di Lois Weber (1916), Christopher Strong di Dorothy Arzner (1933), con una giovanissima Katherine Hepburn, e Le donne di Riazan di Olga Preobrazjenskaia (1927). Ma l'aspetto più interessante di questo festival è risultato essere quello dei documentari. Sono stati presentati i lavori di Carole Roussopoulos che-nel 1984, dopo aver partecipato per due anni all'attività del Centro audiovisivo Simone de Beauvoir, ha deciso di dedicarsi completamente a Video Out, la sua piccola impresa nata nel 1969. Si tratta di video molto ben fatti, che prendono in esame temi come l'aborto, la prostituzione, il lavoro. È sottintesa in essi una grande ansia di integrazione. L'emancipazione è intesa soprattutto come adeguamento, e in questo senso viene considerata di per sé un valore (scelta di lavori prevalentemente maschili, dimostrazione della bravura delle donne). Questi video sembrano credere nell'uguaglianza a qualsiasi costo come astratto diritto ad adeguarsi piuttosto che come reale possibilità di differenziarsi. L'autrice è molto ottimista sulla loro possibilità di collocazione (mediateche, istituti di ricerca, industrie ecc.) e vede questo mercato sicuramente in espansione. Ma accanto a questi modi tradizionali che rivelano forse anche talvolta la pressione delle industrie, delle istituzioni, non sempre diretta a favore di un reale miglioramento della condizione della donna, è stato presentato qualche lavoro che si discosta da questa linea. Senza fissa dimora di Emanuela Piovano, prodotto dalla RAI, affronta il tema di coloro che non hanno casa (uomini, barboni dall'aria sofferente ma lucida, donne sole che suonano per farsi compagnia e quando non trovano di meglio dormono sui treni). Il lavoro si muove in modo originale su due piani: quello della narrazione e quello del documentario. L'elemento narrativo (una figura di straniera che sembra essere la coscienza giunta alla lucidità della riflessione della protagonista del film di Agnès Varda Sans tait ni lai) si pone come la verità del documento e questa "verità" detta dalla voce sillabante e straniata di una ragazza tedesca ripropone quella soggettività che Gertrud Koch

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