Linea d'ombra - anno V - n. 19 - lug./ago. 1987

CINEMA TREBEI FILM A CANNES Alberto Barbera Non è la prima volta che il Festival di Cannes sconta nelle polemiche finali per il verdetto della giuria l'ambizioso progetto di porsi come il luogo ideale della conciliazione degli opposti, la Shan-gri-là del cinema dove trovano temporanea e illusoria soluzione (nello spazio circoscritto della Croisette e nel tempo sospeso della kermesse radiotelevisivo-giornalistica) le grandi contraddizioni del presente, le irriducibili contrapposizioni di sempre. Forse perché a Cannes coesistono il più importante "Marché du film" europeo accanto alla vetrina-concorso più prestigiosa del continente, forse perché Gilles Jacob non ha mai fatto (come invece Rondi) dell'Autore un Mito al quale sacrificare tutto (aldilà di ogni ragionevole principio di realtà, secondo il quale contano soprattutto i film, tu/li ifilm), non c'è dubbio che il Festival francese è andato più vicino di altri alla quadratura del cerchio, mettendo insieme Europa e America, Cinema d'Autore e Cinema di Produttore, Arte e Mercato, Majors e Indipendenti, Nord e Sud, Grande Schermo e Piccolo Schermo. Incautamente, alla vigilia "Première" aveva scritto: "Dopo un anno che ha visto il trionfo di Thérèse, film d'autore se mai ce ne sono, la prova è fatta che non ci sono più famiglie, non ci sono più divisioni. Ci sono dei film, ci sono delle feste e Cannes ne è il simbolo". Più ancora del verdetto della giuria, sono stati i fischi della Grande Salle a guastare la festa, smentendo troppo ottimistiche previsioni e ricordando quanto sia illusorio il mito dell'unanimismo al cinema. Quanto alle recriminazioni italiane per il mancato riconoscimento a una selezione sin dalla vigilia strombazzata come la Grande Favorita, bisogna riconoscere che non hanno ragione d'essere. L'annunciato "ritorno del cinema italiano" - quattro film nella selezione ufficiale, uno in "Un certain regard" e uno alla "Semaine de la critique" - prima che un bluff facilmente smontabile (ma Toscan du Plantier s'è preso del guastafeste per aver ricordato che dietro alla pattuglia cannense c'è il vuoto), si rivela una ben orchestrata operazione di marketing, condotta dall'Ente Gestione Cinema e, soprattutto, dalla RAI, a caccia di affermazioni di prestigio dopo le umiliazioni subite per la politica di aggressione berlusconiana). Alla resa dei conti, il film di Rosi è apparso una splendida e inutile escursione turistica in Colombia, Scola ha confermato la sua modesta statura d'autore, i Taviani si sono adeguati allo spirito pubblicitario della spedizione firmando la più sontuosa, folgorante e vana campagna promozionale del made in lta/y mai vista al cinema. Persino Fellini, partito per celebrare i cinquant'anni di Cinecittà, ha finito con l'erigere un imbarazzante monumento a se stesso: quasi una conferma della supremazia delle immagini finalizzate a "vendere" qualcosa (fosse pure una certa idea dell'Autore, o la sua mitologia). Ciò premesso, si può affermare che il verdetto della giuria ha rispettato i valori in campo. Magari con qualche piccola omissione (il film di Paul Newman avrebbe meritato più dell'inutile Shinran) e non necessariamente in quell'ordine e secondo quella gerarchia. Comunque sia, i tre film più importanti di quest'anno sono saliti sul podio. Sous le solei/ de Satan, innanzitutto, cui è toccato l'onore di essere accolto allo stesso modo dell'Argent di Bresson, pochi anni fa. Qualche tratto comune lega Pialat a Bresson: l'amore per Bernanos, naturalmente, e poi la fedeltà assoluta ad un personale itinerario che non tiene conto di mode, gusti e attese del pubblico, e l'umiltà nei confronti del libro che si è scelto di mettere in scena. Per altri versi, il film di Pialat è molto distante dal cinema di Bresson: l'uno inquadra i bordi della scena, gli spostamenti d'aria provocati dagli avvenimenti fuori campo, l'altro il fulcro dell'azione, la violenza e la pesantezza del Male nel suo farsi. Perciò il film procede per folgorazioni successive e "impressionanti": sforzi sovrumani, visi contratti per il dolore, il peso dei cadaveri, la fatica del miracolo, lo strazio dell'infarto. Lontano dal rassicurante laicismo di Cavalier (non a caso Thérèse è un film che piace a tutti), Sous le solei/ de Satan ha il coraggio di mettere in scena Dio e il Diavolo, il sangue e la passione, la carne e il peccato. Se è ora di affermare (contro tutti) che Pialat è il più importante tra i registi francesi in attività, è quasi superfluo ripetere con tutti che Michalkov è al primo posto dei sovietici, ora che Tarkovskji se n'è andato. Oci ciornie non aggiunge forse nulla alla sua filmografia, ma rappresenta sicuramente il passaporto per il successo e la notorietà internazionale, sinora limitati al pubblico dei cinéphiles e dei frequentatori di festival. Catalogo ragionato dei temi e dei motivi cechoviani che nutrono tutto il suo cinema, il film è una straordinaria macchina spettacolare, alimentata da una regia in stato di grazia e da un 'interpretazione di Mastroianni semplicemente perfetta. Michalkov si conferma cineasta dotato per la commedia, di cui sa dosare, con abilità che sfiora il virtuosismo, tempi e ritmi, percorsi e dominati da uno sguardo insieme cinico e compassionevole. Grande arguzia, un po' di burlesque, qualche autentico pezzo di bravura, molte emozioni, un gusto sicuro per le immagini, amore per gli attori: è la ricetta-base delle commedie classiche che credevamo perduta per sempre, e che Michalkov ci restituisce in una chiave di rinnovata vitalità. In stato di grazia anche Wim Wenders, che firma con Il cielo sopra Berlino il suo film più bello dai tempi di Alice nelle ci/là e di Nel corso del tempo. Il rientro in patria, dopo l'infelice avventura americana, sembra coincidere con una ritrovata consapevolezza di sé e del proprio cinema, disposto a nuovi, esaltanti percorsi estetici. Addirittura sperimentale, nel radicale rifiuto di ogni concessione narrativa, è tutta la prima parte del film: un'ora di straordinarie, rigorosissime immagini in bianco e nero, quasi una soggettiva ininterrotta sulla dimensione più intima e nascosta di una Berlino assunta a metafora della precarietà universale. Un punto di vista "impossibile" (quello di un angelo) che struttura immagini e suoni secondo un'architettura musicale, celando al proprio interno il più radicale e teorico interrogativo sullo statuto del cinema. E, nello stesso tempo, la piu sconvolgente rappresentazione della solitudine e della disperazione contemporanea: una metafisica del cinema e della condizione umana che basterebbe a fare di Il cielo sopra Berlino il film dell'anno, se non dell'intero decennio. All'inevitabile calo di tensione della seconda parte, fa da contrappeso l'introduzione di un motivo inedito del cinema wendersiano, ch'è un cinema di uomini, un cinema dell'assenza femminile: la trapezista di cui s'innamora l'angelo caduto Bruno Ganz è la prima donna a incarnare in Wenders un valore positivo, ancorché astratto. Sandrine Bonnaire e Gérard Depardieu in Sotto il sole di Satana di Maurice Pia/at. 67

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