Boris Pasternak al Congresso di Parigi per la libertà della culrura del 1935 (foto di Gisèle Freund I Agenzia Grazia Neri). tarla all'infinito. Era penoso per me sentire queUo che raccontavi della tua deportazione, lnnokentij, come ti sei mutato e come essa ti ha educato. È come se un cavallo raccontasse come si è addestrato da solo in maneggio". (p. 379). Né greco, né giudeo "Cos'è il popolo, domandi tu. Ma chi è che fa più per lui, chi gli si agita tanto intorno, o chi, senza pensare a lui, con la stessa bellezza e il contenuto delle proprie opere, lo trascina con sé nell'universalità e, esaltandolo, lo rende eterno? Certo, è evidente. E di quali popoli, del resto, si può parlare nell'era cristiana? Non si tratta più semplicemente di popoli, ma di popoli convertiti, trasformati, e l'importante sta appunto in questa trasformazione, non nella fedeltà a vecchi principi. Vediamo il Vangelo. Che dice su questo? In primo luogo, non afferma: 'È così e dev'essere così', ma avanza una proposta ingenua e timida. Propone: 'Volete esistere in modo nuovo, come non è mai avvenuto, volete la beatitudine dello spirito?' E tutti hanno accettato la proposta, conquistati per millenni. "Quando il Vangelo dice che nel regno di Dio non c'è né greco né giudeo, vuol forse dire solamente che davanti a Dio tutti sono uguali? No, per questo non occorreva il Vangelo, lo sapevano ancora prima i filosofi della Grecia, i moralisti romani, i profeti dell'Antico Testamento. Ma il Vangelo intendeva: 'In quel nuovo modo di esistenza pensato dal cuore, in quella nuova forma di comunione che si chiama regno di Dio, non ci sono popoli ma individui'. "Tu hai detto che i fatti sono privi di senso se non se ne dà loro uno. li cristianesimo, il mistero dell'individuo è appunto ciò che si deve immettere nei fatti, perché essi acquistino un senso per l'uomo". (Gordon, a p. 100) Una candela bruciava La tormenta durò tutto febbraio, e ininterrottamente una candela bruciava sul tavolo una candela bruciava. (p. 422, trad. di Mario Socrare) (traduzione di Pietro Zveteremich, Feltrinelli 1957) TEAT~O FINESTAGIONE Stefano De Matteis È risaputo che il panorama teatrale italiano è uno dei più vivaci, ricco di proposte, di spettacoli e di gruppi. Le ragioni di queste continue proliferazioni non sono solamente di ordine artistico: si ha che fare anche con problemi occupazionali, di circuiti degradati, di mancanza di direzioni artistiche, di sottobosco politico. Tutto questo si traduce in una quantità di proposte che finiscono vittime di una feroce selezione e della mancanza di possibilità di reale verifica economica e artistica. Questa vivacità, ovviamente, non è scevra da lotte intestine tra le varie sotto-corporazioni, sempre più agguerrite nella difesa del proprio piccolo spazio: il termine di riferimento è sempre e solo chi nella gerarchia delle sovvenzioni prende di più, e poco si discute sulle capacità di investimento e sull'uso più assennato dei finanziamenti contro lo spreco e lo sperpero nell'inseguimento di mode inutili. Gli addetti non fanno il minimo sforzo per dissimulare la limitatezza degli strumenti di analisi e delle capacità di comprensione di quel che succede, soprattutto in quest'era di organizzatori e non di artisti, sempre miopi e sempre più pronti a farsi catena di trasmissione delle mediazioni approvate sui tavoli dei politici. Qualche anno fa, a causa delle leggi di sicurezza, numerosi spazi teatrali sono stati chiusi e molte formazioni messe in crisi; in questi anni il numero di biglietti da vendere, il minimo di spettacoli da realizzare, la mancanza di fondi che fa del "mors tua, vita mea" la legge prima, sono diventati altrettanti vincoli che tendono a mettere i teatri in una perenne competizione e lotta l'uno con l'altro, ma nessuno ha trovato il modo di poter controbattere in maniera propositiva e, nella frammentazione più totale, serie scelte politiche alternative non ce ne sono state. In questa situazione non sono certo d'aiuto gli "spettatori professionisti", i giornalisti: da una parte, annoiati dalla routine, rinunciano a guardare in profondità e a fare distinzioni produttive, rifugiandosi spesso in effimere e periodiche scoperte (dai comici al teatro-danza ecc); dall'altra molti di loro trovano fertile terreno per proporsi come autori e consulenti letterari, o per candidarsi come direttori di teatri, cumulando cariche e offrendo i servigi del proprio giornale e la sicura complicità dei colleghi (salvo quei pochi casi di onestà intellettuale, sincerità culturale e abilità). Opporsi a questa situazione è difficile anche se non impossibile; viene negato, sarebbe giusto dire rimosso, un problema fondamentale per chiunque realizzi pratiche artistiche, che è quello di capire cosa succede dentro e fuori il teatro in modo da dotarsi di uno sguardo allargato oltre i propri ristretti confini. Questa situazione non favorisce la ricera e la produttività di quelle esperienze 65
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