Linea d'ombra - anno V - n. 19 - lug./ago. 1987

sità di verificare la prassi, la coerenza di certe iniziative. Riguardo ai facili entusiasmi c'è da aggiungere che sarebbe stato più corretto non trarre dai discorsi di Pappalardo considerazioni politiche. La limitazione originaria sta nell'orizzonte morale di quei discorsi, orizzonte che escludeva la politica. Che interpretazione dà la riflessione teologica del fenomeno mafioso? È il male concretizzato storicamente, dalla realtà corposa e criminale. E la Chiesa non può sfuggire al confronto, non può ritrarsi o mettersi da parte. È una ricerca di chiarezza che è ancora in corso. C'è un obiettivo chiaro, raggiungibile e de/imitabile che sta in fondo, che è il punto d'arrivo del vostro lavoro? La prospettiva finale è quella della liberazione dalla mafia intesa come por ere oppressivo. Noi offriamo del materi;'.it: per incidere nella coscienza e nell'iniziaù,a della gente, con l'obiettivo di creare una città libera e democratica. È il punto d'arrivo per un piccolo gruppo che da 13 anni lav0ra senza mezzi, senza sede e senza garan.:"ie. Ma che resiste. Padre Fasullo: in conclusione, di quale cultura secondo lei ha bi:,1.,'gnora la Sicilia, e con la Sicilia il Mendione? Una cultura ancora da fare, critica, di ricerca e di libertà: alla ricerca di nuove identità all'insegna del mutamento razionale e democratico, ma soprattutto libero. Non vi potrebbero accusaredi essereun po' illuministi? Illuministi? L'Illuminismo è il più importante movimento culturale della storia occidentale! CLASSICIE ACCADEMICI Mario Barenghi Di solito d'estate i giornali dedicano un po' più di spazio alla letteratura, vuoi perché i lettori in vacanza gradiscono (almeno così si presume) di incontrare pagine amene anche nel quotidiano preferito, vuoi perché il caldo suole inaridire alcune sorgenti di notizie. L'anno scorso il "Manifesto" ha proposto un'originale alternativa ai rituali racconti o romanzi a puntate, pubblicando una serie di letture di "classici". Nessun disegno generale preconcetto, nessun proposito didascalico: la scelta è stata affidata al gusto e alle simpatie dei collaboratori, chiamati a recensire ciascuno una grande opera del passato come se fosse appena uscita. I ventisette pezzi - che spaziavano da Shakespeare alla Bibbia, da Dostoevskij a Erodoto, da Kleist a Zhuangzi - sono ora stati raccolti da Sellerio in un volume dal grazioso e appropriato titolo Un tocco di classico (pp. 208, L. 18.000). Grazioso il titolo, come interessante e intelligente era stata l'iniziativa. Ma gli esiti ,uno stati così mediocri da giustificare le più gravi perplessità. Intendiamoci: non è che questi articoli, di per sé presi, siano brutti, tutt'altro. E neanche mal scritti o male informati; al contrario: scritti, sono scritti come si deve, e informati lo sono solo troppo. Ma proprio qui sta il punto. Se il loro scopo era di esemplificare una predilezione personale per un particolare libro, di dimostrarne l'attualità, o meglio una attualità (una fra le tante possibili): se insomma volevano persuadere il lettore che'vale la pena di mettersi a leggere o rileggere proprio quel classico, tra gli infiniti che il passato e le tradizioni ci offrono, ebbene, il risultato non può che dirsi fallimentare. Qualche eccezione positiva a onor del vero non manca, ma si tratta di casi sporadici, che non mutano la fisionomia complessiva della raccolta. Eppure le intenzioni erano ottime. Per quale ragione hanno sortito esiti così poco felici? La risposta va cercata innanzi tutto nell'idea di "classico". Comunque si vogliano definire i classici, è certo che le opere annoverate in tale schiera vanno con ciò stesso incontro ad un destino duplice. Da un lato esse diventano argomento di ricerche specialistiche, miranti al massimo di oggettività possibile: i filologi cercheranno di ricostruirne o di preservarne l'integrità testuale, gli storici e gli esegeti si impegneranno a interpretarne gli esatti significati, e così via. Dall'altro, e sempre in virtù della loro conclamata "classicità" (esemplarità, cioè, memorabilità e eccellenza), esse vengono proposte a una continua e diffusa rilettura, che tende ad ampliarne e quindi ad alterarne indefinitamente i connotati. In altre parole, l'imputazione di classicità per un verso irrigidisce l'opera, la consolida, ne esalta la consistenza e la definitività; per un altro invece la elasticizza, la rende (o la riconosce) flessibile, porosa, adattabile a infinite nuove esperienze e situazioni. Ora, non c'è dubbio che i due processi siano nella sostanza correlati, ma questo non significa che siano equivalenti o intercambiabili. Nella fattispecie, è ovvio che l'iniziativa del "Manifesto" avrebbe dovuto puntare risolutamente sul secondo, sia pur correndo il rischio di letture parziali, unilaterali, "candide" o addirittura forzate. E invece nulla di tutto ciò. Nella grande maggioranza dei casi gli autori hanno ceduto all'insidiosa tentazione dell'accademismo, parlando ex cathedra, da esperti. Un tocco di classico si presenta così come un'eclettica raccolta di saggi brevi, di tono cordiale e conversevole, sì, ma sorretti più dalla correttezza della dottrina che dalla vivacità della lettura, e decisamente poveri quanto a capacità di provocazione e di attualizzazione. Il fatto è che la critica - come sosteneva Forster - poggia su due requisiti fondamentali, l'esperienza e l'innocenza. L'esperienza, perché il critico deve possedere un solido bagaglio di riflessioni e di letture per poter giudicare con cognizione di causa. L'innocenza perché, malgrado le proprie competenze, egli deve conservare la facoltà di leggere in modo naturale, immediato, "ingenuo", mettendo ciò che sa al servizio di ciò che sente (e non sostituendo questo con quello). li critico, in altre parole, deve sapere e capire più dei lettori comuni, e tuttavia, come loro, provare sorpresa, interesse, passione, attrazione, disgusto. Accade invece troppo spesso che !"'esperienza" (cioè la conoscenza specialistica) diventi "nocente": corretta ma anodina, e criticamente inerte. Se non siamo più in grado di appropriarci i classici - di riconoscerci in essi, di farli parlare di noi e dei nostri problemi - allora è solo troppo ovvio che la critica (militante e non) sia in crisi, anzi, in congedo. E non solo d'estate. 63

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