Linea d'ombra - anno V - n. 19 - lug./ago. 1987

LACULTURA CONTROLA"CULTURA" Franco Fortini Qualche anno fa, ad un convegno che si interessava dei rapporti fra letteratura e industria della cultura, ad una maggioranza di intervenuti orientata, come si dice, a sinistra, tutt'a un tratto mi occorse di dichiarare: "Non esiste il Petrarca per· tutti". Non volevo solo dire che una gran parte della eredità remota e prossima del sapere della poesia e dell'arte richiede, per non essere fraintesa, una somma di conoscenza che possono essere solo di una minoranza; né che la contemporanea società da preda moltiplica le possibilità di istruzione e di informazione sulle fondamenta (disgregate) di precedenti culture di classe, rendendo così illusoria ogni divulgazione "neutrale". Volevo dire anche che gli alti oggetti di scrittura e di arte, come tutto quel che abbia valore e valori, possono essere compresi a condizione che, chi vuole accoglierli, li assuma con l'impegno e la capacità di "prenderli sul serio". E questo è, mi pare, incompatibile con l'industria culturale di massa e i suoi tempi tecnici. La cultura senza virgolette (vedi un po' che cosa ci tocca rammentare!) è qualcosa che non può coesistere con la vita al trancio, offerta dai dibattiti televisivi dove, non a caso, nel momento migliore suona la nota locuzione: "Il nostro tempo sta per scadere". La mia frase scandalizzò. Ecco, pensarono o dissero, il solito intellettuale all'antica che vuole proteggere dai generosi oltraggi del "popolo", i miti dell'alta cultura. ''Ma tu allora, la gente, il popolo, che cosa vorresti leggesse?", depose nel microfono uno dei relatori. E io, lasciando esterreffatto - lo capisco - il laicissimo uditorio: "Il Vangelo" risposi. Con quella metafora volevo alludere ad un testo difficilmente classificabile che è nel medesimo tempo una vicenda biografica, una raccolta di detti sapienziali, una narrazione, un annuncio di salvezza. Opera letteraria e insieme operazione liturgica della parola; di una ambiguità potente che l'ha resa, almeno in Occidente, unica, da più secoli ormai la sua capacità di far convergere contradditorie vie interpretative si è tradotta o moltiplicata (per il credente: degradata) nelle tavole degli "Immortali principi", nei tomi delle Enciclopedie, nelle carte delle Costituzioni, in "Bibbie dell'Umanità", Divine Commedie, Tutto Shakespeare a dispense, Manifesti, Opere complete e Libri Rossi. Indicare un libro come il Vangelo voleva dire indicare una possibilità di lettura a più livelli di informazione e di "cultura"; cosa evidentemente che, col libro del Petrarca, fu forse vera in altre età ma che oggi è impossibile; voleva dire, in breve, insistere sulla dimensione etica e pratica della lettura. Si dica pure: strumentale. Ma proporre una utopia di questo genere (anzi follia per i rappresentanti del commercio di idee correnti) vale quanto alludere ad ordini e sfere di significati e valori che travalicano qualunque comunicazione letteraria e poetica; e chiedersi, come si chiedeva il vecchio Tolstoj, "di che vivano gli uomini". Comunicare e convenire in un sistema di segni e valori sapendo che farlo è come fondare una lingua, una lingua non universale ma di parte: questo è "leggere il Vangelo" e questo è sempre di ogni vero progetto etico-politico. E può far sentire lieve e sopportabile la perdita di qualunque "Petrarca" ossia di una parte anche grandissima della tradizione letteraria, la sua scomparsa nel cimitero dei classici, la sua durevole destinazione ai campi delle esercitazioni specialistiche o agli sbadigli scolastici. Queste considerazioni mi tornano in mente ogni volta che mi imbatto nel terrorizzante feticcio della "Cultura", che nel nostro paese va ogni giorno esigendo spazi, stanziamenti, riti e venerazione. Certo, mi pare di sentirli: con ironia, parleranno di "anticapitalismo reazionario" per chiunque osi mettere in dubbio l'inevitabilità e quin-, di la bellezza e la gloria della "cultura" in forma di supermarket aperto ventiquattr'ore su ventiquattro. Mi richiamerò allora a qualche ricordo storico: la polemica contro la volgarizzazione del sapere e delle arti e lettere umanistiche è antica di almeno due secoli e da noi reca anche il prezioso e difficile nome di Leopardi; nel corso dell'Ottocento e ben dentro il nostro tempo, la lotta contro la massificazione o l'industria culturale e i dubbi sulla scolarizzazione per tutti, sono stati senza dubbio gestiti dalla conservazione e dalla reazione. Ma proprio con la caduta della Seconda Internazionale e con la prima guerra mondiale buona parte di quella tematica si trasferiva a "sinistra", non già nella Russia rivoluzionaria o nei paesi ex coloniali, ma nell'Europa centrale degli anni Venti e Trenta. Quando oggi leggiamo Adorno o Banjamin, ci è facile avvertire le loro contraddizioni: l'orrore della volgarizzazione e distruzione dei valori culturali accompagnandosi al rifiuto dei miti fascisti, Benjamin sogna la "politicizzazione dell'arte" per sfuggire all'estetismo piccolo-borghese e Adorno, di fronte alla testa di Medusa del dominio tecnologico, esalta l'avanguardia, purché di élite, tuttavia respingendo la musica e la letteratura cosiddette di consumo. Ma mezzo secolo dopo si direbbe che non dovrebbero esserci più dubbi sul senso del progresso "culturale": le folle sono superinformate, i figli del terziario si accalcano dovunque si senta odore di "cultura", mostre e concerti, dizioni di versi, dibattiti, esposizioni d'arte, promozioni librarie, non c'è provincia che non finanzi più d'una rivista letteraria, non riapra vetusti teatri, non ospiti convegni d'ogni misura. Un fiume di miliardi pubblici e privati bagna questo nuovo rinascimento, alimenta la stampa quotidiana e settimanale, fa girare le ruote televisive. Non c'è punto da scherzare: è qualcosa che non si era mai dato in Italia, e credo non si dia in altri paesi europei. Non è necessario esser vetero-marxisti per capire che tutta questa massa di comunicazioni formali e verbali è la forma moderna del servizio ideologico che i gruppi intellettuali di un tempo prestavano al potere. La "cultura" è diventato un settore di produzione, consumo e corruzione integrato fra le amministrazioni dello stato e la pubblicità privata. C'è la pagina della cultura, la trasmissione culturale, l'assessorato alla cultura; e quasi sempre "cultura" vale ormai letteratura, arte, musica e spettacolo, purché rechino una lieve ombra di noia. C'è chi ha interesse a promuovere mediante l'accumulazione dei messaggi, la fine della capacità di distinguere? Credo di si. Vi sono studiosi di questi fenomeni, come Baudrillard, che se ne rendono conto e annunciano una salutare traversata del deserto. Ma dimenticano che le ossa abbandonate lungo questa Death Valley del presente non saranno dei "maledetti" intellettuali ma di innumerevoli ingannati. Saranno stati apparecchiati per loro come fast f oods quei beni il cui unico vero significato pretende invece da noi un mutamento, una "conversione", un superamento dell'oggetto contemplato e, in definitiva, di noi stessi; opere con le quali il contatto dovrebbe essere raro come l'amore e come questo, arduo e continuamente mobile. Una ecologia della "cultura" ossia delle parole scritte e dei segni e delle forme; una riduzione della molteplicità a favore di altri modi di essere e di comunicare: questa è in tanta parte del mondo necessaria e urgente quanto quella che vuole scampare gli ambienti naturali dalla distruzione. Altro che "tempo libero"! I due fronti della lotta ecologica - quello della natura e quello della mente - sono uno solo. Quando, invece di correre per gallerie e concerti e sfogliare pagine "culturali" qualcuno avrà imparato a guardare una rosa in un bicchiere, allora nascerà o rinascerà una opposizione reale allo stato di cose presente. Alla vigilia della guerra fascista se lo chiedeva cinquant'anni fa una intellettuale milanese dimenticata e generosa, Giulia Veronesi; senza sapere che in quei medesimi anni la stessa virtù dell'attenzione era al centro delle riflessioni radicali di una Simone Weil. Perché le rose conti57

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