SPLEEN Hjalmar Soderberg [! a mia vita ha la tinta oscura e bizzarramente confusa del sogno. I primi lampioni incominciavano già a brillare quando iersera lasciai la mia abitazione dopo una giornata trascorsa a meditare sul mistero dell'esistenza. Disperato per non riuscire a trovare una soluzione, dissi a me stesso: sei un pazzo a consumare la tua giornata lambiccandoti vanamente su qualcosa, che di certo non ti renderebbe più felice sapere - e diressi invece i miei sforzi su un problema di scacchi in quattro mosse. Ma poiché la mia perspicacia si rivelò insufficiente anche per quello, lanciai la scacchiera fuori dalla finestra sulla testa di un vecchio con la gamba di legno, per il quale la morte era soltanto un atto di carità, e quindi mi gettai nel brulichio del mondo, disprezzandomi. La sera era calda e limpida e meravigliosamente tranquilla. Sopra il palazzo reale la luna brillava tonda come un vecchio prete, rossastra e fiabescamente grande. Il suono dei passi della gente contro il selciato somigliava al ticchettio di mille orologi, e mi fece fremere al pensiero della rapidità con la quale i secondi scorrevano via dalle mie mani ... Un tram mi passò accanto: ci saltai sopra e feci la circolare un certo numero di volte. Questa distrazione ha la singolare capacità di disperdere la mia malinconia: tutto il mondo mi sembra girare come una giostra, e quand'ero bambino e andavo sulla giostra non riuscivo mai a trattenermi dal ridere. Andò così anche questa volta, non avevo fatto che tre giri quando incominciai a ridere a squarciagola. - Buona sera, disse una voce vicinissimo a me, e un volto si girò dal sedile davanti, un volto pallido e allungato, che invano mi sforzai di riconoscere. Vi riconosco dalla risata, proseguì. Ridevate esattamente allo stesso modo al funerale di mia zia sette anni fa, mentre il prete si faceva interprete del dolore mio e degli altri eredi. Ci induceste a ridere tutti quanti, anche il prete, e verosimilmente anche mia zia. Voi avete un carattere allegro. - Sì, risposi cortesemente, ho un carattere molto allegro. E voi, caro signore? - Ah, non parliamo di me, io sono un malinconico senza speranza. E lo sono da quando ho ereditato da mia zia. - Sì, lo so, risposi distratto. - Lo sapete? domandò lui spalancando due occhi grandi, ingenui e malinconici. Chi ve l'ha detto? - Ma è ovvio. Prima che vostra zia morisse voi eravate gaio e allegro, poiché speravate che sarebbe morta e che avreste ereditato. Poi lei morì, e voi ereditaste, e ora non avete più altre zie dalle quali ereditare. Quindi non avete più niente su cui sperare, e per questo siete triste. È così semplice. Il poveretto mi fissava ora non soltanto con gli occhi ma anche con la bocca. Tutta la sua anima mi veniva incontro attraverso tre enormi buchi. - Avete ragione, rispose l'uomo alla fine. Voi avete dato voce a ciò che da tempo avevo intuito. Grazie, grazie infinite. Egli mi strinse la mano commosso e proseguì: - Voi mi avete tolto un macigno dal petto. Nulla è più sgradevole che sentirsi melanconici senza sapere perché. Ma ora è passato, e voi mi avete reso un gran servizio. E adesso facciamoci compagnia a cena! Questo nuovo risvolto mi attraeva da diversi punti di vista. In verità non riuscivo ancora a ricordare il nome di quell'uomo, ma da tempo ho ormai imparato a sorvolare i dettagli non essenziali; e che significa in fondo un nome? Scendemmo quindi dal tram e salimmo su una carrozza dirigendoci di gran carriera verso una piccola osteria fuori città. In quel rifugio idilliaco ingannammo il tempo mangiando aringhe, ravanelli e patate novelle, e bevendo acquavite norvegese e tre diversi tipi di champagne. Dopo di che saltammo dalla finestra, portando con noi una bottiglia di whisky e della soda; quando atterrammo, ci ritrovammo con nostra gioia sopra un tetto di lamiera leggermente inclinato, con vista stupenda sul più idillico dei laghetti, cui salici e giunchi facevano corona. Ingollammo ognuno la propria bevanda e continuammo la nostra conversazione. - Sì, dissi io, la ricchezza è per l'uomo una fonte di numerose tribolazioni. Una volta avevo un amico che era molto freddoloso. Giocava alla lotteria nella speranza di vincere una somma tale che gli permettesse di comperarsi una pelliccia. E così vinse trecentomila corone. Una vincita tanto cospicua non la si poteva tener segreta: tutti i suoi amici sentirono parlare della cosa e subito presero a prestito una parte così ingente della somma, che lui avrebbe potuto appena appena comperarsi una pelliccia di finto castorino con quanto gli avanzava - ma non lo fece. E come avrebbe potuto? Tutti sapevano bene che aveva vinto quei soldi alla lotteria; e non si può certo andarsene in giro per le strade con una pelliccia da lotteria! - No, è assolutamente impossibile. - Ma naturale. - Già. Restammo seduti per qualche istante in silenzio, ognuno immerso nei propri pensieri. Poi d'un tratto il signor Kihlberg (al quinto bicchiere del terzo tipo di champagne mi aveva confidato che così si chiamava) si levò in piedi con un improvviso lampo d'allegria negli occhi e mi domandò. - Quant'è la vincita massima alla lotteria? - Credo che siano cinquecento o settecentomila, risposi. Per lo meno è assolutamente sicuro che non sono seicentomila; perché gli organizzatori del gioco sanno molto bene, che i numeri dispari possiedono un potere sulla fantasia degli uomini, che quelli pari non hanno. - Quindi diciamo almeno cinquecentomila, riprese il signor Kihlberg. Erano soltanto duecentomila corone che ereditai da mia zia. Se io gioco alla lotteria posso perciò sperare di vedere il mio capitale più che raddoppiato: posso sperare di potere ulteriormente ereditare da una zia e mezza. Allora ho ancora qualcosa per cui vivere! - Certo. Il futuro vi sorride nuovamente. - Sì, io posso ancora sperare. Voglio giocare alla lotteria; ma se vinco? Allora è tutto perduto, allora mi rimane soltanto la morte! (traduzione di Carmen Giorgetti Cima)
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