Linea d'ombra - anno V - n. 19 - lug./ago. 1987

LACOLOMBAIA Fabrizia Ramondino D vecchi del quartiere la ricordano giovane e bella, raccontano che era di buona famiglia e che, dopo avere visto la Madonna, cominciò quella vita. Faccio un po' di conti: sembrava sulla settantina, doveva quindi essere arrivata nel quartiere durante la guerra, o un po' prima o un po' dopo. Non so bene che intendessero i vecchi con quella frase: avere visto la Madonna, è un modo di dire comune però, che sta a indicare una radicale conversione della propria vita; ella comunque non ne aveva mai parlato e, se fosse stata interrogata, avrebbe scacciato l'interrogante in malo modo, come persona molesta e importuna. C'era, sappiamo invece con certezza, in quegli anni la guerra, o fervevano i suoi preparativi, o era il dopoguerra. La vita più repentinamente si convertiva nella morte, la spensieratezza in consapevolezza, la felicità in dolore, la levità in insostenibile peso; in terra gli uomini si torcevano come vermi schiacciati, soffocati, mutilati, il cielo era solcato da bagliori e fragori paurosi, al cospetto dei quali il fulmine e il tuono parevano giocattoli. Ogni cosa si convertiva nel suo contrario o in altra ignota: e questo durò a lungo a Napoli molto dopo il '43 e il '45. Fu allora, o nella imminenza di questi avvenimenti, che la giovane lasciò la sua casa e si mise a vivere in strada. Non sappiamo che casa fosse la sua né dove si trovasse, doveva però essere a Napoli o in Campania, perché parlava bene il napoletano. Da quando non volle più un tetto sopra di lei, solo tollerava di notte la mezza copertura dell'architrave di un sacro portone. E anche se aveva visto proprio la Madonna, non era quella raffigurata e venerata nei numerosi conventi e chiese del quartiere, perché non volle mai rifugiarsi in una casa religiosa; né le venne in mente, come è accaduto a altri visionari, di propria iniziativa o convinta e istigata dai propri fans, di dare a questa sua apparizione una nuova casa, fosse pure una semplice grotta. Si pensava al vederla a una nuova Maria Egiziaca al tempo della sua penitenza (una delle tre madri che il Faust goethiano incontra alla fine delle sue peripezie), che trascorse quaranta anni nel deserto; il deserto infatti somiglia a una metropoli più di quanto non si pensi, la poca vegetazione è come un'oasi, il paesaggio è composto di materia inorganica e, nonostante le folle, gli uomini vi possono essere soli e dimenticati da tutti. Verso il 1962, quando non frequentavo ancora la città antica, una giornalista forestiera mi parlò per la prima volta di lei; l'aveva vista una sera in Via Duomo, sotto il portale del chiostro dei Girolamini, avvolta in un telo di cellophan bianco; pioveva, disse, e il telo, cosparso di gocce, luccicava; aveva l'aspetto di un merletto, pareva un abito da sposa o una lussuosa camicia da notte; l'immagine le era stata forse suggerita dalla gran quantità che aveva visto di veri abiti da sposa e lussuose camicie da notte, nella vendita dei quali era specializzata quella via. Nel 1964scegliemmo un appartamento con giardino in quel quartiere per la sede dell' ARN, che di giorno ospitava un asilo per i bambini dei vicoli e di sera una scuola media per operai e disoccupati e nel 1970vi venni ad abitare; da più di venti anni quindi San Lorenzo è il mio quartiere. Cominciai così a incontrarla spesso e in tutti questi anni il suo aspetto è rimasto immutato - o sono stata io a non cogliere, nella mia distrazione, gli impercettibili passi del tempo, che la seguiva come un padre amorevole e savio, non come un ladro o un assassino - né bellezza né giovanili illusioni poteva infatti rubarle; né le ha tolto prematuramente e in modo violento la vita, ché, nonostante vivesse esposta alle intemperie, è morta, come tanti, di vecchiaia. Era piccola di statura, tozza, robusta, curva, sempre vestita di nero, fino ai piedi, con sulle spalle un mantello e in testa un fazzoletto annodato sotto il mento: aveva una faccia piena e pallida, labbra rosse, socchiuse in una sorta di smorfia, che ora esprimeva indignazione e disgusto, ora si volgeva in sorriso garbato, mai in ghigno, nemmeno quando inveiva: occhi neri, grandi, mobili, sotto la fronte alta e corrucciata, quasi sempre chini, come tutto il sembiante; e quando, raramente, li sollevava per rivolgersi a qualcuno, si era colpiti dalla urbanità dello sguardo, dei modi, delle parole. Inveiva spesso contro i molesti, gli importuni, i persecutori, continuando però a camminare e a mantenere lo sguardo fisso a terra; la voce pareva allora la scia lasciata al passaggio da uno sconnesso vascello e gli anatemi, risuonanti nei vicoli stretti, parevano rivolti a tutti e valevano più come constatazione del male che come offesa al singolo. Portava in spalla un gran sacco scuro pieno di tozzi di pane secco e varie borse di stoffa le pendevano dalla cintola e dalle braccia. Di giorno non la si vedeva mai oziosa, seduta o stesa, ma sempre in cammino; si spingeva fino a piazza Mercato, ma di norma non oltrepassava i confini dell'antica Neapolis, percorrendone indefessa, ma a passi lenti, cardini, decumani e piazze. Il suo territorio era fisso e ben delimitato, non era un uccello migratore, come altri vagabondi. Non chiedeva l'elemosina né l'accettava, se non da alcuni affezionati, proprietari di bar o di salumerie del quartiere, dove entrava e dove spontaneamente le veniva dato; e frequentava di primo mattino ristoranti, pizzerie, mense, dove le davano tutto quel pane secco. Possedeva certo un sesto senso che l'aiutava a scansare macchine, motorini, passanti, a percepire l'avvicinarsi dei tormentatori e dei molesti, a conoscere l'ora dei suoi appuntamenti. Vedeva il selciato dai basoli lavici, sventrato ogni tanto per riparazioni alle fogne, ai tubi del gas o dell'acqua; la testa degli operai che sporgevano dai tombini; le tute unte dei meccanici sotto le automobili; i piedi e le scarpe dei passanti; l'immondizia, quella ammucchiata agli angoli e quella sparsa, fra cui negli ultimi anni tante cicche di sigarette, non più raccolte una ad una come durante la guerra, e tante siringhe di plastica, oggetti nuovi e preoccupanti fra le più familiari e antiche immondizie, come scorze di mellone e di arancia, carte di caramella, pallottole di giornale; i fuochi accesi d'inverno in secchi rotti e altri improvvisati bracieri accanto agli ambulanti; l'acqua puzzolente di pesce sotto i portici durazziani e quella che sapeva di disinfettante sparsa ogni mattina ai tempi del colera; le gocce di sangue appena stillate dai quarti di vitello macellati di fresco; i bambini e i vecchi scivolati in terra; i palloni rotolanti

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