Linea d'ombra - anno V - n. 19 - lug./ago. 1987

questo" (idem): qui risiede il suo più profondo fascino, l'elemento "irrazionale che abita la capitale della logica" (p. 37). Chi racconta vuole rendere partecipi i suoi lettori della "natura fantastica di questa città" (p.31), mentre affiora a lampi la dolorosa consapevolezza della resistenza di un "mondo umano dovunque scomparso" (idem), dove è annidata nella terra, nascosta nelle foreste, confusa nel mare una tragedia latente, una concezione della vita spietata e priva di illusioni, il trionfo di una logica acre" (p. 17). La sensibilità trasfiguratrice, la fantasia proteiforme e deformante dell'Oreste nasce allora non da un atto di rimozione inconsapevole ma piuttosto dall'interiorizzazione sofferente e sofferta della storia umana e universale - storia della natura tutta - patita personalmente e vissuta in chiave tragica e disperata, unitamente allo struggente ricordo dell'infanzia, epoca non di innocenza individuale, ma di più potente presa stravolgente sul reale. La "memoria della memoria" alla quale si è accennato rimanda esattamente al tempo della giovinezza; qui il ricordo acquisisce la sua carica fascinatoria per divenire asse centrale dell'adulta sensibilità che non riesce però del tutto a nascondersi il sostrato di sofferenza che da sempre innerva l'evolversi della vicende umane: "Visione che sembrano sottratte, fresche e vive, rosee e argentee, come retate di pesce, alla notte, al segreto di un mare, che non è più quello idilliaco di Mergellina, ma è la nostra tragica incombente storia" (p. 56). È la profonda consapevolezza di come ogni uomo debba perdere la propria felice e antica ingenuità, di come il genere umano sia erede di un peccato originale sedimentato e maturato nello scenario violento della sua eterna e cruda sopraffazione: la dimensione adulta è 'nella storia individuale di ognuno - la morte di quella ingenuità, il tramonto di quell'epoca di illusioni (non sorprende allora il grande interesse dell'Otese per Leopardi). Ecco la più originale scaturigine della verve fantasiosa della scrittrice, incontenibile anche in queste narrazioni dall'apparenza occasionale; una vena che non sfocia mai - però - nella deformazione espressionistica, ma piuttosto risulta giocata sul versante di uno stravolgimento fantastico molto personale. Una dimensione di fantasia che piacque a Bontempelli ma che sembra irriducibile alla categoria del "realismo magico"; che si avvale di immagini tipicamente saviniane (soprattutto in alcuni procedimenti di personificazione e in certe caratterizzazioni fisiognomiche: "11 Musi, la faccia di donna e di gatto piena di baffi bianchi, assentiva tenendosi appoggiato a un oblò" (p. 81) -e quanto sarebbe piaciuta a Savinio la premonizione contenuta nel cognome del personaggio, in quel Musi! ma che, all'opposto, non filtra il mondo attraverso un'ironica intelligenza ma per via di una costante compartecipazione sentimentale alla vita. Certo, molto è dovuto all'universo fantastico surrealista; c'è pure un po' di favolistico di Buzzati, anche se per il testo in questione la suggestione più presente alla scrittrice sembra essere quella del realismo lirico e mitico della vittoriniana Conversazione in Sicilia, con il 1opos del tragitto in treno e lo sguardo rivolto per lo più ai compagni di viaggio dai soprannomi emblematici: la "DonnaCiliegia" (p. 48-49) o la sua vicina "donnabestia". Varrebbe la pena, allora, di riconsiderare la fisionomia complessiva di quest'autrice, dotata di una sensibilità particolarmente viscerale, e ammirevolmente impegnata in una ricerca letteraria della quale i cinque racconti di li mormorio di Parigini non costituiscono che una tappa, e non certo delle più significative. A maggior ragione in un'epoca come la nostra, nella quale tanta letteratura vive sulla sfavillanti rovine di una società - di un mondo - riproposto in continuazione come spettacolo strabiliante rivisitato narrativamente all'insegna di una presunta "auntentica inautenticità", quasi non si trattasse invece dello spettacolo quotidiano interpretato in realtà da noi tutti. L'APPRENDISTATO DI PETERABRAHAMS Fabio Gambaro Dire libertà. Memorie dal Sudafrica (Edizioni Lavoro, pp. 324, L. 20.000), il romanzo autobiografico scritto da Peter Abrahams nel 1954 e ora pubblicato in Italia per la prima volta, sembra cercare una sua ragione d'essere nello spazio che intercorre tra due opposte posizioni apparentemente inconciliabili. Da un lato, la sfiducia nella letteratura in una società incancrenita come quella sudafricana ("Chi lo vuole mai uno scrittore? I bianchi? Certo, se però fai la scimmia ammaestrata e gli dici che sei contento del tuo destino. I neri? Non hanno tempo per leggere. La maggior parte non sa neanche leggere. E quelli che ne sono capaci son talmente impegnati a migliorare il loro destino miserabile che non hanno tempo di leggere delle poesie"; dall'altro, l'insopSCHEDE/GAMBARO125 primi bile bisogno di testimoniare, di raccontare l'assurdità e l'ingiustizia, il dolore e la sofferenza, ma anche il coraggio e la solidarietà, la rabbia e l'amore di un intero popolo ("Voglio scrivere libri e parlare della vita in Sudafrica". "Racconterai di noi? Di questo misero villaggio?" "Sì, padre. Voglio raccontare tutto, il bene e il male"). All'interno di questi due margini, quindi tra coscienza dei propri limiti e bisogno di infrangerli, si colloca la storia del meticcio Peter Lee, nato in un sobborgo di Johannesburg e segnato per la vita dal colore della sua pelle. Una vita fatta di miseria e privazioni, dove la lotta per la sopravvivenza è continua, come pure l'oltraggio inflitto dalla società bianca, che non cesserà di perseguire il protagonista fino alla sua partenza verso l'esilio dell'Inghilterra. L'infanzia di Peter si svolge tra la location rurale di Elsberg, in cui egli scopre la durezza e la miseria assoluta della vita nel veld, e il ghetto urbano di Vredendorp, dove il peggio è che non sembra esserci alcuna via d'uscita alla triste condizione sua e della sua gente; condizione che oltretutto nessuno sembra saper spiegare(" Accadevano delle cose e sembrava che nessuno sapesse perché"). Qui soprattutto Peter dovrà imparare in fretta che accanto al suo esiste un altro mondo, raggiungibile a piedi in meno di mezz'ora, ma abissalmente lontano e diverso: è il mondo dei bianchi: pulito, ordinato, silenzioso, ricco; talmente potente da permettersi perfino una buona fata bianca che salva il piccolo protagonista dalle ire dei poliziotti, ma al contempo spietato e preciso nella quotidiana umiliazione inferta ai neri, nella ingiustificata violenza che esercita contro di loro e nel difendere accanitamente i propri esclusivi privilegi economici. Nel ghetto per vivere bisogna lottare, la sopravvivenza è fatta di piccoli lavori, di furti, di problemi famigliari, di malattie, di violenza, di ignoranza, ma ben presto la sola sopravvivenza non basta più a Peter che crescendo inizia a guardarsi attorno e a volere qualcosa di più; sarà la scuola, prima frequentata quasi per caso e poi al prezzo di molti sacrifici e compromessi, ad offrirgli l'occasione di modificare il suo destino, altrimenti incatenato alla miseria e all'ignoranza di Vredendorp. La conquista progressiva della cultura gli permetterà di scoprire, non solo le proprie inclinazioni letterarie, ma anche che già altre parole sono state scritte in difesa dei neri, che l'ordine creato dai bianchi non è dato e non è l'unico possibile, che si può essere orgogliosi della propria pelle scura. Nella lettura dei testi degli intellettuali nordamericani sulla condizione di non liber-

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