Linea d'ombra - anno V - n. 19 - lug./ago. 1987

124 SCHEDE / CLERICI rivare al ricordo dei "giovani Indi con mazze dorate e piume-(.- .. ) e i cowboys a cavallo" (p. 17), raffigurazioni tra le piu sedimentate nella coscienza e nella fantasia della scrittrice - legate a precisi ricordi d'infanzia -: ricorrono nella sua prima raccolta pubblicata, Angelici dolori (Bompiani, 1937, in particolare andrebbe riletto il secondo racconto, Pellerossa) e, sintomaticamente, danno vita a un ampio e importante episodio della prima parte del suo romanzo toledano. Non mancano del resto neppure alcune analogie tonali con il titolo piu famoso dell'autrice, la raccolta "neorealistica" di racconti di vario genere li mare non bagna Napoli(Einaudi, 1953, ora nella Bur); si veda la crudezza di un'osservazione quasi distratta nel secondo pezzo del Mormorio: "Entrò nello scompartimento un piccino di sei anni, con una bella faccia e già volgare, la voce dura. (... ) Usci, tornò subito indietro. Aveva visto qualcosa, e la raccolse: una rotellina di ferro verde in uno sputo" (Tuona a Napoli, p. 49). Anche nella sua ultima raccolta, dunque, l'Ortese conferma una straordinaria unitarietà d'ispirazione, manifestata innanzitutto dalla ricorrenza costante e insistita di alcuni temi e spunti assolutamente centrali in tutta la sua opera, visto che i libri sopra ricordati si dispongono lungo un arco di tempo di una quarantina d'anni, e poco importa il fatto che alcuni motivi seguano oppure anticipino argomenti di altri testi (del resto non è facile districarsi all'interno della produzione artesiana: molti racconti compaiono in raccolte successive con titoli diversi e con varianti testuali anche numerose. Detto in altri termini potremmo osservare come l'autore implicito di li mormorio di Parigi abbia la medesima fisionomia di quello di tutte le altre opere dell'Ortese: l'autorità conferitagli per aver vestito i panni del reporter, di colui cioè che afferma e descrive un'esperienza de visu, nulla cambia in merito all'indole del testo offerto al lettore, il quale ritrova la medesima figura fabulatrice presente anche in L'iguana (Valecchi, 1965, nuova ed. Adelphi, 1986), il romanzo piu "eccentrico" della scrittrice, anche se non perciò del tutto estraneo alla sua vena tradizionale e, in definitiva unica. Queste prose giornalistiche di viaggio si realizzano, dunque, all'interno della dimensione del racconto, inteso come genere letterario tradizionale: racconti tra gli altri racconti dell'autrice. Intanto, a parlarci della sua Parigi, è un viaggiatore sedentario e statico: si guarda intorno a partire da una postazione immobile e ben individuata , volge i suoi occhi piu spesso all'interno dell'ambiente in cui si trova e piu raramente al di fuori di esso. Punto di vista privilegiato attraverso il quale il narratore descrive il mondo è sempre un 'apertura, un vuoto tra lo spazio del privato e la piazza, tra la dimensione familiare e quella pubblica: un balcone oppure una finestra che mettono in contatto la camera del- ! 'albergo con l'universo circostante: "Alle sei del mattino, tirando le tende a fiori gialli e rossi che coprono i due balconi della stanza, ho visto il mare" (p. 58); in un altro racconto il narratore si avvia "verso il fondo del corridoio, dove un balcone era aperto ( ... ) e di là mi resi conto ch'eravamo a un'immensa altezza. (... ) Comunque uno spettacolo imponente" (p. 90). La premessa per il CO'l1tattocon l'esterno è dunque costituita da un atto di allontanamento, da una presa di posizione a distanza: l'opposto della volontà di immersione nel reale e di smemoramento di sé. Dopo questo primo fondamentale distacco, può prendere avvio il processo di conoscenza e descrizione del mondo, che però è caratterizzato da una sorta di inclusione del mondo nel soggetto, condotto lungo le linee portanti della sensibilità personale, della memoria e della fantasia-fantasticheria soggettiva. Il paesaggio viene trasformato; tenuto a distanza rivela una sua nebbiosa inconsistenza: cosi è per il mare di Napoli (' 'una nebbiolina cinerea lo avvolgeva tutto" p. 58), per i colori di Parigi ("questa fioca luce d'estate, come di un'estate ricordata o dipinta, non vera" p. 16) e per le atmosfere degli altri paesaggi: "c'era su quella campagna( ... ) come un velo, un'ombra non materiale, non uscita dalle nubi del cielo, ma generata quasi dal tempo" (p, 47). L'oggettualità si sfalda in un costante e impressionante silenzio, nota di fondo dei cinque racconti e, anche, motivo centrale della raccolta Silenzio a Milano (Laterza, 1958, nuova ed. La Tartaruga, 1986): "non si sentiva un suono, neppure questa volta" (p. 74). li narratore osserva se stesso: "È che mi stava accadendo la cosa insieme piu facile e piu sinistra che si possa dire: quando una immagine ve ne ricorda un'altra, e cosi via, finché il vostro presente è scomparso, e tutto ciò che vi sta davanti è puro passato, eco di una vita che fu piu vera di questa" (p. 90). Quando lo sgurado si volge all'esterno, la presa di contatto con il mondo circostante avviene come di riflesso: "Ed ecco cosa è rimasto di St. Germain-Des-Prés, nella mia immaginazione. Anzittutto un fanale( ... ) In questa perla, si rispecchiano le seguenti cose: Facciata grigia e campanile( ... ); vasi-dafiori e finestre bianche lungo la facciata" (p. 34-35), insieme ad altri particolari dello slargo circostante; analogamente due giovani alla stazione sedevano "a un tavolo diverso, sotto uno specchio diverso", e "Il tempo, negli specchi, si andava oscurando, e i due bei Gemelli non se ne avvedevano, sempre intenti a parlare" (p. 54), fino a che "Nuvole da fine del mondo, attraversate dai raggi di un sole spento, crescevano negli specchi, al punto che presto parve vi fosse stesa su quei vetri una tenda" (p. 55). La relazione del soggetto con la realtà si configura dunque solo e unicamente alla stregua di un impossessarsi del mondo facendolo proprio, traducendolo cioè nei termini della personale e soggettiva interiorità, o - al contrario - proiettando sull'universo la sensibilità e la memoria del singolo individuo: solo cosi il reale dice qualcosa, ma - soprattutto - solo cosi il mondo si lascia vivere. Il tema era già stato affrontato con icastica felicità dall'Ortese nella situazione narrativa del suo racconto forse piu famoso, Un paio di occhiali, primo di Il mare non bagna Napoli. [Qui] Eugenia, la giovane protagonista, vive e gioisce nel miserrimo basso napoletano che ha sempre abitato con infantile spensieratezza, grazie a un particolare tipo di rapporto personale instaurato con i suoi sordidi luoghi: è "quasi cecata" sin dalla nascita, ma si muove perfettamente a suo agio, finché la zia Nunzia non decide di regalarle un bel paio di occhiali nuovi fiammanti. Vedere l'ambiente che l'ha sempre circondata.e provare un conato di vomito è un tutt'uno: la mediazione soggettivistica e trasfiguratrice è scomparsa di fronte alla violenza del reale che si presenta agli occhi infantili irrimediabilmente delusi della protagonista. La rilettura fantasiosa del paesaggio, soprattutto urbano, si impone su ·un ambiente ormai naturalmente violento: per sopravvivere nella modernità bisogna soffrire il dolore del mondo per poi poter approdare a una irrealtà a misura personale: è necessario dimenticare volontaristicamente la sofferenza umana, la sopraffazione e la miseria, per riuscire a tradurre le immagini dell'universo circostante in segni cari e memorabili, tanto da divenire, nei casi migliori, memoria di memoria. A fondamento della disposizione percettiva del narratore c'è dunque l'esigenza di "non sapere più nulla di questo tempo" (p. 38), per poter riscoprire - o meglio sarebbe dire ritrovare - I 'autenticità" del quotidiano e quindi dell'umano" (p. 38), "l'innamorato riguardo per la piccolezza e la nullità, per il canto del passero e per le ninnenanne della noia (... ) Parigi è "innanzitutto "una lunga educazione a tutto

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