Linea d'ombra - anno V - n. 19 - lug./ago. 1987

122 SCHEDE / PISCHEDDA zione alternativa, per piccoli gruppi di affini. Oggi si tratterebbe invece di una secca mutilazione della dimensione comunicativa, di un fallimento. Piccoli gruppi non ne esistono più; e un libro del genere finirebbe per apparire pleonastico alla "generazione" e incomprensibile agli altri. E perciò sarà interessante seguire il destino di questo romanzo. Del resto non si tratta propriamente, come è stato detto, di un romanzo corale. È piuttosto abitato da un piccolo coro, ma anche in questa scelta si manifesta una sorta di austera onestà: non ci sono figure superflue, l'economia narrativa è rigorosa. Con una semplicità che corre persino il rischio di apparire didascalica (specie nelle due biografie parallele tra loro e perpendicolari a Marco: Tommaso - il fratello "positivo", da ragazzo-bene e forte di una sua cosciente sicurezza a dirigente d'azienda - e Filippo - correttore di bozze dai capelli arruffati e con la casa eternamente in disordine, lettore di fumetti mentre tutti chiosavano i sacri testi marxisti, "di Lotta Continua. A volte. Non sempre", che finisce in manicomio ad aspettare gli extraterrestri). Ma con una essenzialità che non rinuncia a essere chiara, comprensibile, "falsificabile"; con una nettezza e una verità psicologiche con cui il lettore si può confrontare e che può mettere in discussione. Vorrei ancora segnalare, di Generazione, le belle pagine dedicate al calcio, che hanno tale peso e spazio da rischiare di squilibrare il baricentro della narrazione. Ma qui il calcio è anche un modo per osservare e capire gli altri, e specialmente un'altra generazione "che vedo passare sopra i motorini, con i piumini colorati". Ed appare soprattutto l'unico coagulo possibile di entusiasmi, sentimenti, emozioni in un mondo ormai opaco ed intiepidito. Saul Bellow ha detto una volta che c'è speranza finché qualcuno piangerà vedendo Re Lear; forse è solo segno di maggiore pessimismo pensare che c'è qualche speranza finché qualcuno piangerà per un gol o uno scudetto: "Anche la sua città, rossa di tetti e lontana, gli sembra che respiri a fatica, pesante d'anni e di idee, incapace, come lui, di entusiasmi. Ma forse neppure questo è vero, se basta una partita di calcio a svegliare la gente, a farla parlare". Forse è solo l'estrema illusione di una generazione predisposta a ogni delusione. Ma forse è l'ultima traccia del suo sentimento più onesto e ambiguo (in via di sparizione): la generosità. LABOLGIAIMMOBILE Bruno Pischedda Sin qui, di fronte all'ultimo romanzo di Aldo Busi, (La Delfina Bizantina, Mondadori, pp. 400, L. 22.000), la pubblicistica critica pare per lo più essersi assestata su due posizioni. Da un lato chi, mal sopportando l'aggressività narcisistica palesata dall'autore nei suoi comportamenti pubblici, tende a valutazioni stizzite anche di fronte all'opera (per esempio Stefano Giovanardi). Dall'altro critici che più favorevolmente riconoscono ai suoi testi un 'originale pregnanza narrativa, pur se limitata da una incontrollata fluvialità linguistica derivante da evidente, ma scusabile, incontinenza caratteriale dello scrittore bresciano (per esempio Domenico Porzio). Si ha insomma l'impressione che, inevitabilmente, autore e opera non riescano a essere funzionalmente rescissi a favore di una completa oggettivazione del giudizio. Busi di questo potrà certo lamentarsi, ma è difficile credere che si accorga di essere lui stesso l'artefice primo di tale situazione. Del resto la faccenda cambia segno se spostiamo l'attenzione sul versante del pubblico dei lettori non professionisti. In questo caso, e in una quota non trascurabile, essi sembrano attratti, oltre che dai romanzi, proprio dalla particolare presenza dell'autore nei vari contesti giornalistici e televisivi; dalla sua incondizionata disponibilità al contatto nella sfera pubblica. Nonostante i timori di un appiattimento nell'anonimato sollevati dall'ingresso del computer anche nell'ambito privilegiato dell'agire esteticocreativo, l'importanza e la responsabilità dello scrittore sembrano uscirne confermate, se non, come nel nostro caso, rafforzate. Una parte larga del pubblico, e certamente non la più depressa, continua cioè a manifestare il bisogno - una volta consumato l'atto di lettura o precedentemente ad esso - di un riferimento autoriale il più possibile concreto e immediato. Semmai, con quel tanto di vitalismo declamatorio e trasgressivo caratterizzante i suoi comportamenti, Busi sembra proprio offrire un'immagine di sé quale nuovo vate, cui possono riferirsi gruppi socialmente assai variegati, sofferenti di quella cappa di spersonalizzazione e anonimia indotta vuoi dalla "tecteologia", vuoi dalla "teotecnica". Secondo due astuti neologismi che ci riconducono fra l'altro al centro contenutistico di questo romanzo. Eppure, persino al cospetto delle due notevoli, ma non facili, opere precedenti, La Delfina Bizantina si caratterizza per un'aspra e faticosa lettura. Non solo in riguardo a un pastiche linguistico fitto di arcaismi, stranierismi stravolti, neologismi, e di un insistito metaforismo talvolta di arduo scioglimento stante il livello di astrattezza cui viene a collocarsi. E nemmeno per i continui differimenti, per le anticipazioni incomplete. Per quei "mozziconi di un segreto" che con maligna abilità Busi dissemina a distanza di centinaia di pagine; nell'evidente intenzione di accrescere morbosamente la curiosità del lettore e condurlo così al termine della narrazione. Il problema della fatica di lettura va invece posto al livello dello stesso progetto rappresentativo elaborato dall'autore. Bolgia infernale entro cui si consumano tutti gli orrori dell'odierna (e cosiddetta) società civile, il romanzo si presenta come universo concentrazionario senza alcuna possibilità di fuoriuscita. Cioè come vero "cerchio immobile che si allarga sempre più e gira solo e esclusivamente su se stesso". Certo, pur in assenza di precise determinazioni cronologiche, e tramite collocazioni geografiche alquanto stilizzate, l'intento è quello di mostrare uno spaccato economico e sociale nel suo moto degenerativo (più che evolutivo). Da un "Prima" ancora segnato dall'eredità post-bellica, e caratterizzato da un terziario in fase arretrata che celebra i suoi miseri fasti da piccolo parvenu del crimine. A un ''Adesso'', dominato dalla commistione infernale tra poteri occulti, idolatria informatica e misticismo pagano che aspira a una impossibile redenzione trascendente. Perché "non si poteva aver fatto di tutto per non vivere come viene viene e poi dover anche morire". Tuttavia sul piano dei personaggi la stasi è pressoché totale. Immobile Teodora, la giovane "balenottera", che pure nella prima parte pareva promettere al lettore un tormentato processo di emancipazione dal funesto legame materno. Ed immobile anche la madre, Anastasia, nonostante l'improbabile crisi esistenziale che la coglie nella seconda parte della narrazione. Da questo punto di vista, della stasi evolutiva, La Delfina si pone certo su una linea di continuità col precedente Vita standard. Con cui divide anche un disperato incupimento ossessivo, che qui raggiunge via via i limiti di un vero visionarismo grottesco. Diversi sono però i presupposti tecnico-retorici. La fitta rete degli indiretti liberi, l'approfondimento psicologico, la plurivocità dei punti di vista: sono tutti elementi che avrebbero dovuto condurre Busi al superamento di quell'assai peculiare autobiografismo tramite cui aveva realizzato i testi precedenti.

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