gomenti" le relazioni tra questi termini e l'estrema attualità di questo nodo. Generazione di Giorgio van Straten (Garzanti, pp. 168, L. 16.500) e Casalinghi/udine di Clara Sereni (Einaudi, pp. 165, L. 9.000) sono due libri forse (meglio dirlo subito) non abbastanza robusti per soddisfare completamente Volponi, ma onesti. E dopo gli accenni fatti sopra, spero che l'aggettivo assuma qui il peso che merita. Sono anche due libri con alcune affinità: parlano di storia degli anni appena trascorsi, presentano qualche somiglianza stilistica, hanno una forte componente autobiografica. La loro quasi contemporanea pubblicazione finisce così per apparire abbastanza signi ficativa. È sperabile, insomma, che non di coincidenza si tratti, ma di tendenza. Di Casalinghi/udine parla, in questo stesso numero di "Linea d'ombra", Giovanna Rosa. Generazione racconta, attraverso le vicende di Marco Da Col e di suo fratello Tommaso, la storia dei venti anni alle nostre spalle. Lo fa senza infingimenti e travestimenti: ci sono i volantini e le assemblee, le elezioni e la militanza a tempo pieno, le sconfitte e il riflusso. La storia è raccontata in maniera lineare, la sua progressione è perfettamente ricostruibile dietro i sette squarci narrativi che la scandiscono e la sintetizzano. La narrazione è piana e diretta, di grande essenzialità e nitidezza espressiva. Per questi motivi trovo che Generazione sia un libro non solo onesto ma anche coraggioso. Per anni i giovani che hanno vissuto vicende analoghe o prossime a quelle raccontate da van Straten hanno creduto di aver attraversato qualcosa di talmente profondo, di così intricato da essere quasi impossibile da comunicare. La falsa e autocompiaciuta coscienza di una generazione ha trasformato venti anni complessi, contraddittori, complicati in qualcosa di ineffabile, nel senso letterale del termine. Van Straten sembra essere animato da una convinzione opposta; non nasconde l'opacità, la confusione, le assurdità di quegli anni. E anzi su queste caratteristiche costruisce la sua storia e il suo protagonista: Marco Da Col è un personaggio fragile e insoddisfatto, raramente trasparente, perennemente non conciliato. Ma crede, van Straten, che la confusione e le incongruenze di questa storia possano essere chiaramente raccontate. Non per dissiparne le ambiguità o per risolverne le contraddizioni. Ma per ripensarla veramente, senza ammiccamenti, ermetismi, mistificazioni. Ecco perché la nitidezza narrativa di Generazione mi sembra coraggiosa: perché è Foto di Uliano lucas. qualcosa di più di una scelta stilistica e allude a un atteggiamento politico verso gli anni di cui parla. E in questo senso riprende un discorso interrotto dopo i primi te ti usciti tra il '77 e 1'80, dopo i primi reperti - possiamo ormai chiamarli così - della giovane letteratura italiana, quella che proveniva direttamente dalle ceneri dei movimenti collettivi e rappresentava anzi una prima resa dei conti con quell'esperienza. In quei libri - è un po' imbarazzante fare i nomi, perché sono sempre i soliti - c'era un forte rapporto con la realtà, sebbene quella angusta e qualche volta settaria di una generazione. Una ricostruzione a posteriori, basata sugli esiti successivi della giovane letteratura italiana, potrebbe asserire che si trattava solo di un primo timido passo verso la pienezza e l'autonomia della letteratura "vera". Ma non è così. C'era in quei testi una intuizione appena accennata e forse poco consapevole ma evidente, dei rapporti che letteratura e realtà devono intrattenere. Uno sforzo faticoso di camminare in equilibrio su quel crinale, provenendo da un abisso dove tutto era stato sottomesso alla realtà ossessiva e collettiva della politica, ma con la ferma intenzione di non cadere nel baratro opposto: quello di una letteratura autosufficiente (col suo corollario editoriale che descrivo ancora con parole di Volponi: "oggi il libro deve essere totale. Riconoscibile, usato, convertibile, praticabile, mangiabile, digeribile, filmabile, televisibile"). Riprendendo il filo interrotto di quei tentativi, Generazione ne eredita anche i problemi: è sicuramente un romanzo con poca forza, con poca cattiveria. È un libro poco duro col mondo e con la generazione di cui SCHEDE/ SINIBALDI 121 parla, sempre assolta - sembra - dai buoni sentimenti e le buone intenzioni che la animano. Dipinge una generazione che si aspetta sempre il privilegio della comprensione e del perdono - esattamente come è sempre aperta per Marco la porta di casa di Cecilia. Marco non rompe mai veramente con la sua classe e i suoi privilegi, come dimostra la sempre differita e mai compiuta rottura con l'amato-odiato fratello Tommaso, che di questa classe e delle sue scelte di vita è il simbolo. La ribellione politica, per quanto profondamente motivata e vissuta, non arriva a realizzare questa rivoluzione.E come un Fabrizio del Dongo trasportato a velocità siderale da un piccolo regno prerisorgimentale alla Toscana delle giunte rosse, Marco dà spesso la fastidiosa impressione di cadere sempre in piedi. Come se questa salvezza finale non fosse, in fondo, che la giusta ricompensa alla sua tolleranza. Indulgente verso il mondo, Marco ne riceve indulgenza. (Non sto rimproverando al romanzo una mancanza di grinta. Viviamo tempi in cui ce n'è fin troppa, specie fuori dalla letteratura, e viene sbandierata come un valore in sé, un simpatico tratto distintivo, una garanzia. Però nell'orizzonte del romanzo capita di avvertire e di soffrire l'assenza di personaggi "forti". Ma è una latitanza dovuta al romanzo o alla generazione?). Nell'attenzione per gli altri - altre figure, altri percorsi, altri destini - è invece una delle qualità più interessanti del romanzo. Che anche da questo punto di vista sembra riallacciarsi a quella breve stagione iniziale della giovane letteratura - giusto dieci anni fa - in cui l'apparire di un timido narcisismo segnalava l'affermazione di un io narrativo, erede del soggettivismo politico del '77, che si rivolgeva a un noi, a lettori che immaginava fiduciosamente come ascoltatori partecipi e disponibili. Quando invece l'insopportabile narcisismo di tanta giovane letteratura, specie americana, non vuole saperne di persone plurali e pretende rigorosamente una massa di io isolati nella loro incomunicabilità e soddisfatti della propria autosufficienza. Qui nasce l'altro rischio, ovviamente. Ed è che un libro del genere finisca per parlare solo a una generazione, come in una specie di letteratura a circuito chiuso. E che questo tessuto di altri si riduca in realtà a poca cosa, a pochi altri omologhi e complici. Era un esito che la letteratura post-'77 perseguiva abbastanza esplicitamente, come in un'estrema rivalutazione di una qualche forma di comunica-
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