anche sopraffatto dalle innovazioni tecnologiche al giornale (leggi: computerizzazione), il cronista sogna un nuovo scoop, e crede di averlo trovato quando un oscuro personaggio (che raccoglie a caso tutte le carte che trova scritte da esseri umani, facendone un immenso, caotico archivio da cui sogna di trarre, mettendo ordine, la "Storia") promette di metterlo sulla strada del tesoro della Wehrmacht. Giunge così in una villa sul lago di Como, appartenente ad un appena defunto Comandante, del quale l'amante, dal pregnante nome di Sibilla, exattrice di antica ma ancora visibile bellezza, racconta la storia. Affascinato, il nostro giornalista ascolterà tutta la notte, una "lunga notte" appunto, nella quale Sibilla, attrice e maga e oracolo, attraverso il racconto, anzi "il poema del Comandante" (la cui figura aduna tratti caratteristici dei più noti gerarchi, Balbo, Farinacci, Pavolini, e di d'Annunzio, e dellò stesso Mussolini), dove presto però, se non subito, lei stessa prende il sopravvento, "Ingrandita, una di quelle facce di donna da fumetto e cartone animato, quando, leggero e travolgente, il dio dell'Ultima Moda guida la mano del disegnatore( ... ). Scampata senza stupore a qualche apocalisse e, senza memoria, preparata alla prossima. Un'insegna volutamente fatta disegnare in fretta e fatta esporre nel posto sbagliato. Un'insegna per il secolo dei Lumi spenti - e degli incendi". Di tesori, naturalmente, neanche l'ombra. Ma attraverso la maschera, anzi la serie di maschere di Sibilla, il narratore si trova come per caso, a scrivere finalmente, e sia pure per interposta narratrice, il romanzo che fin dall'Opera aveva sognato di scrivere. Addirittura gli riesce di scrivere qualcosa come un romanzo storico: non tanto nel senso, ovvio, del racconto di episodi legati alla storia pubblica, quanto perché, un po' come i romanzieri dell'Ottocento, egli vuole riempire le lacune della storiografia, o almeno contestarne la presunzione, l'astratta univocità e l'improbabile teleologismo. Ma, proprio perché si muove a partire dalla constatazione della difficoltà di disegnare un quadro generale fondato, il romanziere ironizza anzitutto su se stesso, mette le mani avanti, si dichiara soltanto cronista, e per di più un po' incapace: al punto da presentare il romanzo come la cronaca di uno scoop mancato, come la cronaca del tentativo di scrivere un articolo di cronaca che sarà impossibile scrivere. Trascinato però dalla magia di Sibilla, il narratore s'immedesima nel racconto altrui fino a sopraffarlo, a rifarlo suo, ritrovandovi il se stesso di un tempo, e riscoprendo a posteriori il proprio rapporto con gli eventi della storia generale e qualche frammento, almeno, della propria identità. Ma quando Sibilla tace il cronista recupera la propria posizione di ostentata minorità, di debolezza, e anzi si assenta dal mondo che sembrava finalmente cominciare ad afferrare: prima si mette i tappi nelle orecchie, e forse non solo per dormire ("Regredivo. Toglievo i contatti. Finalmente! Non ero più collegato"); poi, costretto a riporre il suo "Nirvana tascabile", partecipa al funerale del Comandante, ma, al momento di salutare Sibilla, perde gli occhiali (esattamente come nel finale dell'Opera) , si ritrova semicieco: "Come disturbi su un video, si spostavano ombre". E come L'Opera, anche questo libro si chiude sull'immagine del narratore che cerca vanamente di mettere a fuoco quanto gli accade intorno, mentre gli altri si agitano, agiscono, lo sbatacchiano di qua e di là. Si potrebbe sospettare ch'egli, del brandello di verità appena afferrato, non sappia che farsene: ma forse, semplicemente, Tadini ci dice che il suo compito per il momento è finito, adesso tocca a noi. Egli ha già visto, e poco importa che un ironico contrappasso, o forse la stizza di un dio, di un "qualche regista iperuranio", lo abbia fatto ridiventar cieco, persi e rotti i suoi occhiali: siamo noi, adesso, che cominciamo a vedere un poco meglio. CASALINGHITUDINE Giovanna Rosa Con Casalinghi/udine (Einaudi, pp. 169, L. 9.000) Clara Sereni ci offre una lettura piacevole e intelligente: libro di ricette e racconto di formazione femminile, si ricava da questa duplicità d'intenti il suo primo motivo di interesse. Casalinghi/udine si inserisce a pieno titolo nelle tendenze dell'attuale sistema letterario, caratterizzato, per un verso, dalla produzione massiccia di romanzi che puntano al successo attraverso il recupero, più o meno duttile, dei canoni della letterarietà tradizionale, e, dall'altro, dall'offerta, altrettanto ampia e disorganica, di testi in cui la commistione di elementi eterogenei rompe i confini rigidi dei generi consolidati. Così, in Casalinghitudine, mentre fornisce ricette di polpettone all'ortica o di peperoni ripieni e combinazioni estrose per insalate di stagione, la Sereni ripercorre con lucida ironia le tappe di una difficile ricerca di identità. SCHEDE / ROSA 119 Ad avvalorare la felicità inventiva dell'opera è l'atteggiamento di divertito distacco che l'autrice assume nei confronti dei due modelli adottati. Per fortuna del lettore, il libro non è l'ennesimo insopportabile manuale di nouvelle cuisine o un nuovo galateo mondano - culinario: in queste pagine non c'è traccia della vanteria spocchiosa di chi presume di ricavare dall'esperienza personale norme, regole, istruzioni per l'uso valide, anzi tassative per tutti. Un analogo rifiuto di accettare le pose compiaciute di saggia consigliera trama il racconto memoriale delle vicende passate che, ad eccezione di alcuni brani intonati al rimpianto elegiaco, si affida ad una scrittura veloce, nervosa, ellittica, costruita, nel rispetto della paratassi, su sequenze brevi e frasi nominali. È uno stile che ben s'adatta all'ordine frammentario di una struttura doppiamente franta: le ricette interrompono, con un richiamo alla pratica quotidiana, il flusso narrativo e questo, d'altronde, procede per flashback giustapposti e diacronicamente intrecciati. Il tempo maturo anticipa e illumina l'età infelice dell'adolescenza, "l'onda del '68" e l'esperienza del "gruppo" s'intersecano con le vicende familiari dolorosamente "impasticciate". L'itinerario, culinario ed esistenziale, teso ad affermare un 'autonomia libera e responsabile e nel contempo a recuperare le radici di una-cultura antica, non può essere né lineare né progressivo. La parabola narrativa si snoda congiungendo due eventi vicini per connessione temporale e carica affettiva ma lontani e contrapposti per valore simbolico: la nascita del figlio Tommaso, a cui è dedicata la prima sezione del ricettario, e la morte del padre, di cui solo ora in limine è possibile riconoscere e accettare la parola autorevole. La figura paterna "che aveva fatto e sapeva tante di quelle cose" domina incontrastata lo scenario della ricerca di sé, esperita dalla figlia. La Sereni ne compone il ritratto con accenni fuggevoli, allusioni discrete, trattenendo il rimpianto di desideri inappagati che possono prendere forma solo nello struggimento di una favola narrata in terza persona. Ma, quanto maggiore è il ritegno a lumeggiare la personalità pubblica di Emilio Sereni, studioso e dirigente comunista, tanto più urge la necessità di rivisitarne il fascino contraddittorio, di cui era impregnata l'intimità domestica: solo così, forse, la memoria attenuerà finalmente il rigore scientifico della sua cultura e riuscirà a sfumare i suoi implacabili "però". E accanto al padre, ecco affollarsi le tante, le troppe figure femminili di questa fami-
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