Linea d'ombra - anno V - n. 19 - lug./ago. 1987

8 APERTURA/ANDERS un nemico mortale trapelò, allora io dovetti patire la stessa cosa che, in seguito, ho dovuto patire migliaia di volte: fui torturato. Ogni notte venivo innaffiato con acqua gelata e spalmato di sudiciume (allora non conoscevo ancora la parola "tortura"). Così - almeno per quello che fui costretto a lasciar fare su di me - mi trovai all'avanguardia; talmente all'avanguardia che, sedici anni dopo, i misfatti dei nazisti non riuscirono a sorprendermi più di tanto. E se mi chiedete quando mi sono sentito per la prima volta legato al passato ebraico o a quello che forse, pensando ai profeti e a Gesù e a Marx, si potrebbe chiamare - lo dico senza nessuna superbia - la "missione ebraica", rispondo: "È stato quarant'anni dopo, quando nel 1958, sulla piazza del mercato di Kyoto, io predicai ad un gruppo di preti buddisti rannicchiati davanti a me sul selciato - era la sera prima dell'anniversario del Giorno-di-Hiroshima - sì, io predicai che una Hiroshima universale non solo è possibile ma anche probabile; che il compito di evitare questa fine è di tutti noi; che noi - tutti ugualmente minacciati, non importa dove viviamo, non importa che fede abbiamo o non abbiamo - che tutti noi siamo diventati "il nostro prossimo più prossimo", che ciò che può colpirci tutti deve riguardarci tutti. E mentre predicavo - nonostante che personalmente io sia un ateo (ma, la passione, non importa se si annida nell'anima di un credente o di un non credente) - dunque, mentre io predicavo così, nel bruciante calore d'agosto del Giappone del Sud, sentii di non essere solo; ma queste parole ammonitrici mi venivano come sussurrate dai Profeti di sventura dell'Antico Testamento". E se infine mi chiedete in quale giorno io mi sia più profondamente vergognato - no, non di essere ebreo (che di nulla mi vergogno di più che quando incontro un ebreo che si vergogna di essere ebreo), ma in quale giorno io mi sia più profondamente vergognato di essere ancora qui come ebreo, allora rispondo: "È stato quel giorno d'estate, sette anni dopo Kyoto, quando mi sono trovato ad Auschwitz davanti a montagne di scarpe, montature di occhiali, dentiere rotte, ciuffi di capelli tagliati e valige a mano ormai prive di padrone. E tra queste cose avrebbero dovuto trovarsi anche i miei occhiali, i miei denti, le mie scarpe, la mia valigia. Allora io - che non ero stato deportato ad Auschwitz, che da tutto questo ero venuto fuori per un caso - io mi sentii come un disertore. E non ebbi il coraggio di pensare: "Grazie a Dio, sono ancora qui". Giacché come potrebbe un uomo, messo di fronte ai milioni di uomini che - in nulla più colpevoli di quello stesso uomo - se ne sono andati in fumo, pronunciare il proprio grazie per aver avuto, lui proprio, una tale "chance"? E chi si dovrebbe ringraziare per il fatto che l'annientamento di sei milioni di uomini non è stato impedito da nessuno? Lasciatemi indugiare un attimo su questa vergogna di esistere oggi ancora qui in quanto·ebreo - di non essere tra quelli che sono stati annientati ad Auschwitz o a Maidaneck. Una tale vergogna ha una preistoria. Essa è infatti la punta più manifesta di un stupore che è sempre stato alle fondamenta del mio essere ebreo; Io stupore di essere venuto al mondo ancora come ebreo. Questo stupore non mi ha lasciato un giorno solo dopo il mio primo incontro con la storia abnorme del popolo ebraico. Naturalmente esso non riguardava solo il mio personale "essereancora qui", ma il fatto che noi esistiamo ancora: noi, la cui preistoria e la cui storia è consistita in una ininterrotta "catena di lacerazioni" - di migrazioni, persecuzioni, fughe e massacri. Il meglio che ci è stato concesso - le poche volte che, eccezionalmente, non siamo stati perseguitati - è stato di poterci unire ad altri popoli; e tuttavia questa per noi era, in un certo senso, una fine, perché, in casi del genere, sparivamo in quanto ebrei. Di solito, non è chiaro a nessuno che la fine del popolo d'Israele, nella sua maggior parte, è avvenuta prima in Egitto, poi in Babilonia - né occorre che io enumeri qui tutte le stazioni successive. In Egitto, già nel tredicesimo secolo prima della nascita di Cristo, i miei pro-progenitori avrebbero potuto far parte di coloro (la maggioranza dei loro simili) che si unirono a quella popolazione (e i cui pro-pronipoti sono forse caduti ieri, da buoni egiziani, combattendo contro gli israeliani). Ma stiamo precorrendo i tempi. Restiamo all'esodo dall'Egitto - al quale, cosa stupefacente, hanno preso parte, hanno certamente dovuto prender parte, i miei pro-progenitori - giacché altrimenti non sarebbero arrivati, dopo aver vagato tanti anni nel deserto, alla "terra promessa", e allora io non sarei qui e non sarei io. D'altra parte, i figli dei figli di quella minoranza che poterono integrarsi, come migliaia di loro simili, come, di nuovo, la maggioranza di loro, in Babilonia - dov'erano stati fatti trasmigrare - costoro, per rimanere lì, di certo hanno già saputo parlare il babilonese (forse anche !'"alto-babilonese") con la stessa naturalezza con la quale oggi io vi parlo (non già, ma ancora) il tedesco. Ma ancor più stupefacente è che i miei pro-genitori abbiano, ancora una volta, fatto parte di quella minoranza che dalla Babilonia fu riportata indietro in Palestina - altrimenti io non sarei qui e non sarei io - e durante le migrazioni successive non si siano fermati né ad Alessandria né a Toledo né Dio sa dove, ma siano sempre andati avanti. E che ancor oggi esista questo resto dei resti - e che per caso anch'io appartenga a questo resto dei resti - questa è la cosa della quale io, da decenni, continuo a stupirmi; e dalla quale in nessun caso mi auguro di "redimermi". Giacché il pensiero che le tante salvezze comprate a prezzo di sangue dovevano essere inutili è così difficilmente sopportabile, che a nessuna condizione io cederei il "Bene" salvato (anche se non saprei proprio definire in cosa esso consista). r-:, unque io mi dichiaro ebreo e sono deciso ad essere sot- .... terrato come tale - anche se, certo, senza rabbino e in un luogo qualunque. Noi che vi parliamo siamo "gli ultimi" - cioè gli ultimi ebrei, che un tempo e con ragione si sono chiamati "ebrei tedeschi" e che hanno vissuto in simbiosi (non esiste altra parola che questa, per quanto discutibile) con i tedeschi. Misurata in tempi storici, questa simbiosi per la verità non è durata a lungo; appena un centinaio di anni, quindi molto meno di quella ch'è esistita con altri popoli. Ma per i nostri genitori e i nostri nonni questa simbiosi è stata assolutamente naturale - cosa che

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