Linea d'ombra - anno V - n. 19 - lug./ago. 1987

LUGLIO-AGOSTO 1987 - NUMERO 19 LIRE 9.000 I rivista di storie, immagini, discussioni GUNTHERANDERS/ CHRISTAWOLF FAULKNER/ BUNIN/ SODERBERG/ LINGSHUHUA SANCHEZFERLOSIO/ BICHSEL/ DESAI ~ J .\l'a\"u1·· r,,t,u,.go /Jfll"rm~ • .••• ••••.,. ti"~ - r, -• 1t ii ·1 . ' .. • ;.,/f1f,,..I, ,lu,.~ -== -• l ,... ~- -,, ;:; ~~~ I

SCRITTUERLAETTRONICA La leadership di Olivetti è il risultato di una vocazione aziendale e di un impegno tecnologico e qualitativo. Ma è anche una realtà industriale riconosciuta a livello internazionale. Nel campo della scrittura, Olivetti è leader dal 1908, quando progettò la prima macchina pe~ Y~]~:Jtaliana.Lo era ancora !fBnt'anni~~o al momento_di ~~e.-,s~~ercato mondiale la ffi~}~--~~'hi~ per scri~ere elett_ronica. ~To e sop'rattlltto oggi che scrittura ~ttronica Olivetti vuol dire un altro scr'iveré~9-CfÙnqueun altro vivere negli uffici di cinque continenti. Scrittura, videoscrittura, wordprocessing. Macchine intelligenti, veloci, efficienti. Silenziose. Con capacità di memorizzare e di comunicare. Con capacità di liberare la creatività di chi le usa. Una gamma di modelli per ogni esigenza professionale, progettati ergonomicamente per ottenere i massimi livelli di funzionalità e di confort: ET 109, ET 112,ET 116, ET 240, ETV 260, ETV 500. In u·nmercato fortemente competitivo, la leadership di Olivetti nella scrittura vuol dire più di un primato tecnologico: è il risultato di una esperienza unica nell'organizzazione e nel lavoro dell'ufficio. olivetti

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Per chi scrive Giornalisti, saggisti, romanzieri, traduttori, possono dimenticare la vecchia macchina da scrivere e adottare Macintosh (Macintosh PlusTM,Macintosh SE™, Macintosh JJTM)come nuova tastiera, archivio, agenda personale, biblioteca, terminale per comunicare con le banche dati di tutto il mondo, posta elettronica ("Salve Hans, traducimi questo pezzo al più presto, quando torno 'sta sera a casa vorrei trovare la (traduzione sul mio video.") "Ciao Marina, ho trovato due locali ok - zona Brera ti lascio la piantina sul video, fammi sapere cosa ne pensi, love Roberto") - Intanto MacintoshTMimmagazzina pagine su pagine, corregge quante volte si vuole, sillaba i testi automaticamente, impagina con la rapidità del fulmine. Lasciando spazio a foto, titoli, didascalie. E poi costruisce in tempo reale grafici, tabelle, box, pubblicità. Premete il tasto di "Stampa" e il vostro ultimo racconto esce già definitivamente impaginato per andare dal tipografo. Macintosh conserva nella sua memoria centinaia di pagine. Ma anche migliaia, se vi occorre. Il nuovo Macintosh Il è la macchina più perfezionata per la gestione di grosse qua111i1à di dati, sia in termini di capacità che in termini di velocità. Voletetrasfarmarv Per gli editori MacintoshTMè il computer "da scrivania" che fa diventare tutti editori. Appie®EDIT (MacintoshTMè il pezzo centrale del sistema) fa tutto il lavoro di composizione, correzione e impaginazione. Appie®EDIT è il più affermato sistema di editoria elettronica esistente, in grado di realizzare qualunque tipo di documento o stampato, dalla bozza iniziale alla lavorazione da fare fuori azienda e quindi costi di produzione ridotti all'osso. Il sistema Appie®EDIT offre tre modelli di computer da scrivania: Macintosh Plus, Macintosh SE e Macintosh li, più la sofisticata stampante Laser WriterTMa tecnologia Laser in grado di stampare con ben 35 stampa finale: libri, riviste, ; c_atal?ghi,manuali, relazioni, ..· hst1m, ecc. · .;; " -:.1> r Appie®EDIT taglia tutti i passaggi intermedi fra lo scritto e la pellicola definitiva da mandare in stampa. Concentra sul suo schermo tutte le funzioni: battitura, correzione bozze, menabò, impaginato iniziale, controllo impaginato, tagli, aggiunte, impaginato definitivo, montaggi... Insomma nessuna ? /◄' Maci111oshPlus, trasforma in "editori e/e/Ironici" seri/lori, tradu11ori, giornalisti, copy writer, ma anche i111ereredazioni, caporeda!lori, grafici, creativi, art-director, fotocomposi/ori, tipografi ... caratteri tipografici diversi qualunque lay-out definitivo su carta, pellicola, buste, etichette... Per pubblicitàe grafica MacintoshTMè il mezzo in assoluto più versatile e veloce per partire da un'idea "creativa" e

in editorielettronici? arrivare al lay-out finale. "Head line", "body copy", marchi originali, stili, corpi, elaborazioni grafiche, disegni, retini, vengono gestiti tutti sullo schermo di Macintosh TM (anche a colori) con una facilità e una immediatezza inimmaginabili per un grafico pubblicitario, un copywriter o un creativo in genere abituati a una notevole dipendenza da fornitori esterni. Prime stesure di testo, lay-out provvisorio, simulazione del testo, reprocamera, montaggi, bromografo, negativi, typon, forbici, strisciate, colla, tipometro, sono tutti momenti e strumenti che vengono dimenticati. Macintosh compone testi, elabora corpi, crea logo, cambia in tempo reale giustezza, stili, impaginazioni, ingrandisce, rimpicciolisce,corregge, disegna a due e tre dimensioni e alla fine fornisce le pellicoledefinitive per la stampa (anche a 4 colori). La stampante LaserWriter: in poche ore tu/lo un numero come questo di Linea d'Ombra già pro1110 in pellicola da portare in tipografia. Il sistemaAppie®EDIT Macintosh è ormai una scelta affidabile e sicura, come testimoniano le migliaia di aziende presso le quali è già in uso (nel mondo ne sono stati comprati oltre I milione, forse anche per via del suo accessibilissimoprezzo: dai 3 ai 10 milioni di lire a seconda del modello scelto). Documenti e programmi sono infatti raffigurati da "icone", cioè immagini stilizzate che riconoscerete a prima vista: cartellette per gli scritti, blocknotes, archivi, calcolatrici, un cestino per la carta. Anche il linguaggio usato per i comandi vi sarà familiare. Tutti i comandi infatti sono scritti in italiano e sulla scrivania un dispositivo chiamato "mouse" (puntatore) seleziona per voi i programmi, apre i documenti, aziona le procedure. Scoprirete come sia possibile pilotare uno dei computer più potenti con i gesti più istintivi: e così in poche ore si impara ad usare un programma pronti per capire il successivo. Ma Macintosh è anche un sistema aperto: in rete si possono collegare senza speciali interventi fino a 32 sistemi diversi. Inoltre inserendo un'altra scheda viene aperta la comunicazione con praticamente qualsiasi altro "mainframe" o minicomputer: IBM, Digitai, Data Generai, Hewlett-Packard, Prime... Tutto questo è Appie®EDIT. Vi pare poco? A noi no. Ma se volete sapere tutto su Appie®EDIT venite alla CAT (''Computer Advanced Technologies" di Milano) l'Appie Center che ha fornito e installato i Macintosh alla redazione di "Linea d'Ombra". COMPUTER ADVANCED TECHNOLOGIES Via San Vittore, 6 20123 Milano tel. (02) 87.19.46

Einaudi • ' I ' DarcRy ibeiro Utopisaelvaggia Il destino di una civiltà nell'avventura fantastica e scandalosa del negro Pitum, ospite-prigioniero delle Amazzoni. A cura di Daniela Feriali. « Supercoralli », pp. 169, L. 18 ooo HarolPdinter Proust Pinter racconta Proust: la sceneggiatura del film mai realizzato sulla Recherche. Traduzione di Elio Nissim e Maria Teresa Petruzzi. «Nuovi Coralli», pp. 189, L. 12 ooo Beowulf La storia della lotta tra un eroe umano e un mostro assassino nel primo testo poetico della lettera tura anglosassone. Con un ricco apparato illustrativo di famosi San Giorgio medievali e quattrocenteschi, A cura di Ludovica Koc_h. «I millen_ni», pp. LVI-281, L. 40 ooo ArthuSrchnitzler Amoretto Le eleganti menzogne della società viennese /in de siècle. A cura di Paolo Chiarini, «Collezione e.liteatro», pp. 1x-61, L. 6000 RicharKdrautheimer Trecapitacliristiane Un famoso storico dell'arte ricostruisce le complesse relazioni tra religione, architettura e ideologia, che hanno determinato lo sviluppo di Roma, Costantinopoli e Milano tra il IV e il v secolo. Traduzione di Renato Pedio. «Saggi», pp. xxv-203 con 106 illustrazioni nel testo, L. 28 ooo ZygmunBtauman Memordieiclasse Quando la memoria diventa un ostacolo a comprendere e vivere il presente: le contraddizioni degli storici e le tendenze neocorporative della società industriale. Traduzione di Alfredo Salsano. «Paperbacks», pp. v-256, L. 26 ooo Riproposte: DanielDeelGiudice Atlantoeccidentale Tradotto in dodici lingue, 1 il romanzo di Del Giudice è ora anche in edizione tascabile. «Nuovi Coralli», pp. 177, L. 1 2 ooo HenrJyames DaisMy iller La spregiudicatezza e l'innocenza della giovane America nel libro piu fortunato diJames. 1 Con una nota introduttiva di Italo Calvino. «Gli struzzi», pp. 83, L. 6000 MarcePlroust L'indifferente La novella che anticipa l'atmosfera e il gioco dei sentimenti della Rccherche. «Nuovi Coralli», pp. 81, L. 6000

Direrrore Goffredo Fofi Gruppo redazionale Mario Barenghi, Alessandro Baricco, Alfonso Berardinelli, Gianfranco Bettin, franco Brioschi, Marisa Caramella, Severino Cesari, Grazia Cherchi, Luca Clerici, Pino Corrias, Stefano De Matteis, Bruno Falcetto, Fabio Gambaro, Piergiorgio Giacché, Filippo La Porta, Claudio Lolli, Maria Maderna, Danilo Manera, Santina Mobiglia, Maria Nadotti, Antonello Negri, Gianandrea Piccioli, Bruno Pischedda, Roberto Rossi, Franco Serra, Paola Splendore, Gianni Turchetta, Emanuele Vinassa de Regny, Gianni Volpi. Direzione ediroriale Lia Sacerdote Progeno Grafico Andrea Rauch/Graphiti Impaginazione Nino Perrone Ricerche Jorografiche Fulvia Farassino Hanno ino/rre collaboralo a ques10 numero: Pasquale Alferi, Marcella Bassi, Bruno Canosio, Roberto Cazzola, Camilla Cederna, Paola Costa, Giorgio Ferrari, Laura Gonçalez, Regina Hayon Cohen, Pilin Hutter, Laura Lepetit, Bruno Mari, Roberta Mazzanti, Grazia Neri, Vanna Massarotti Piazza, Emanuela Re, Alfredo Salsano, Storiestrisce, Alessandro Triulzi, Marco Zapparoli, la casa editrice e/o, la casa editrice Feltrinelli, Ubulibri, la biblioteca dell'USIS di Milano, la libreria Feltrinelli di Via Manzoni, Milano Libri e La nuova corsia di Milano, la redazione delle pagine culturali dell'Unità, la rivista inglese "End Journal". I saggi e in1erven1i di caranere scieniifico vengono pubblicali con il concorso del "Progeno Culrura Monledison ". ·Edi1ore Linea d'Ombra Edizioni srl Via Gaffurio, 4 - 20124 Milano Tel.02/6690931-6691132 Fo1ocomposizione e moniaggi multiCOMPOS snc Dislribuzione nelle edicole Messaggerie Periodici SpA aderente A.D.N. Via Famagosta, 75 - Milano Telefono 02/8467545-8464950 Dis1ribuzione nelle librerie POE - Viale Manfredo Fanti, 91 50137 Firenze - Te!. 055/587242 Swmpa Litouric sas - Via Puccini, 6 Buccinasco (Ml) - Tel. 02/4473146 LINEA D'OMBRA rivisla di s1orie, immagini, discussioni Iscritta al tribunale di Milano in data 18.5.87 al n. 393 Direttore responsabile: Goffredo Fofi Sped. Abb. Post. Gruppo 111/70% Numero 19 - Lire 9.000 Abbonamenli Abbonamento a 10 numeri: ITALIA: L. 50.000 da versare a mezzo assegno bancario o cl c postale n. 54·140207 intestato a Linea d'Ombra ESTERO: L. 70.000 I manoscriui non vengono restituiti. Si risponde a discrezione della redazione. Si pubblicano poesie solo s11richiesla. LINEDA'OMBRA anno V luglio/agosto 1987 numero 19 Sommario APERTURA 6 Giinther Anders Il mio ebraismo STORIE . 26 38 42 54 93 95 100 102 Anita Desai Ling Shuhua Fabrizia Ramondino Hjalmar Sdderberg Grazia Cherchi Sebastiano Addamo Dario Voltolini Ivan Bunin Oriente e Occidente Dopo la festa La colombaia Spleen L'ultima giornata Il cuore della legge Tre racconti In un tempo lontano POESIA 75 Stefano Morefli da li quaderno degli aquiloni BOTTEGA - 15 51 105 Christa Wolf Peter Bichse/ William Fau/kner Est/Ovest: Cassandra e le altre a cura di Beflina Berch e Anne-Christine d'Adesky Homo narrans a cura di Chiara Allegra La tentazione del fallimento a cura di Raffaele La Capria NARRARELASCIENZA · 21 Re11~0 To111a1is La fiducia nelle prove e la libertà delle scelte DISCUSSIONE 13 40 47 77 78 82 87 90 Ea Mori Maria Rita Masci Rafae/ Sdnchez Ferlosio Alfonso Berardinelli Claudio Me/dolesi Bruno Falcetto Gian Carlo Ferrefli Alberto Cadioli Anders, un autore rimosso Ling Shuhua: dalla Cina a Bloomsbury Pinocchio, o la vendetta dell'arte Poeti che non sanno di niente Quattro pensieri anticlassicisti Scrittori di genere Le capre di Bikini Un best seller per la piccola editoria? ILCONTESTO 55 PARLIAMO DI: Guerre Stellari (S. Rushdie), La cultura contro la "cultura" (F. Fortini), Hans Mayer (S. Fabian), L'Africa di Luca Goldoni (F. Gambaro), Vanni Scheiwiller (G. Turchetto), "Un tocco di classico" (M. Barenghi), "Non credere di avere dei diritti" (M. Caramella). INCONTRI: Piero Manni (F. Ungaro), "li Segno" (S. Mizzi), Rosa Chacel (E. Pintor), Eugenio Colombo (F. La Porta). RUBRICHE: Horror (S. Benni), Teatro (S. De Ma((eis), Cinema (A. Barbera, M. Schiavo), Di lato (P. Oppezzo). ANTOLOGIA: Giornalisti (S. Kierkegaard), Pensieri da "Il dottor Zivago" (B. Pàsternak). DAI LETTORI: William Mastrosimone (C. /ppolito). SCHEDE 118 127 128 STORIE - Emilio Tadini (C. Turchefla), Clara Sereni (C. Rosa), Giorgio van Straten (M. Sinibaldi), Aldo Busi (B. Pischedda), Anna Maria Ortese (L. C/erici), Peter Abrahams (F. Cambaro). La copertina di questo nui;nero è di Stefano Rovai. Libri da leggere Gli autori di questo numero [.,

Negozianti ebrei in Cecoslovacchia, 1936 (da Un mondo scomparso, libro fotografico di Roman Vishniac, Edizioni E/O).

ILMIOEBRAISMO Gunther Anders rima di cominciare, vorrei chiarire un possibile malinteso. Alcuni di voi - che forse mi conoscono per le mie battaglie contro il fascismo, la minaccia atomica e la guerra del Vietnam - potrebbero stupirsi nell'apprendere che sono ebreo. Il mio nome, infatti, suona scandinavo. Ma questo nome è uno pseudonimo che mi sono trovato già molti decenni fa - per la verità, non allo scopo di "nordicizzare" la mia persona. Comunque, io sono nato con il buon nome ebreo di Stern. E come tale - a viso ~perto - desidero di stare oggi innanzi a voi. Ma - prima di scrivere sull'essere ebreo di questo Guenther Stern - desidero porre qualche considerazione sul momento storico in cui mi decido a farlo. Quello che voglio dire è che oggi ci troviamo in una situazione nella quale, da una parte, la "presa di distanza" dal tempo di Hitler - che dopo il 1945si era diffusa in modo più o meno onesto (piuttosto meno che più) - si è trasformato in nostalgia; una situazione nella quale il tempo dell'assassinio di massa è diventato un "buon tempo antico"; e nella quale, d'altra parte, l'odio cieco per cui trentacinque anni fa sono caduti milioni di vittime incomincia di nuovo a risvegliarsi. Dico: "di nuovo". Poiché quest'odio non si risveglia tanto tra gli "ex" ormai divenuti vecchi e che potrebbero essere ancora antisemiti - di gente come questa ce n'è ormai poca - ma piuttosto tra gente giovane, che per la maggior parte non si è mai trovata faccia a faccia con un ebreo. Per tal motivo, quest'odio è ancora più spaventoso che l'odio cieco dei loro padri e dei loro nonni. Com'è noto - oppure le avete saltate queste notizie, sui giornali? - poco tempo fa, ad Hannover, sono state insudiciate e spaccate, in altre parole profanate, delle tombe ebree. Un tale vandalismo prova che noi ebrei, anche quando siamo già morti da molto tempo, siamo percepiti dalla coscienza dei contemporanei come una spina nel fianco. In un certo senso io temo che siamo persino indispensabili a certa gente, degna di compassione. Siccome, infatti, essi non trovano più nessun ebreo vivo - dato che sono stati tutti scacciati o liquidati dai loro padri e dai loro nonni - si accontentano delle pietre tombali degli ebrei morti ancor prima del 1933. Quello che noi - gli ultimi ebrei - e loro - i nipoti degli assassini di ebrei - abbiamo da imparare da tutto questo è che l'esistenza degli ebrei non è affatto necessaria per lo scoppio dell'antisemitismo; che esiste un antisemitismo senza ebrei. Da questo antisemitismo senza ebrei io vorrei mettervi in guardia. Per il motivo che esso è - credetemi - presagio di un grande astio collettivo, di una possibile mentalità fascista o fascistoide. Chi vorrebbe combattere gli ebrei e non ne trova nessuno disponibile, molto probabilmente chiamerà "ebrei" altri gruppi di diversi - oggi studenti, domani dimostranti contro i reattori nucleari e così via. lo - un ebreo casualmente risparmiato e che, altrettanto casualmente, ha l'opportunità di parlarvi a nome di milioni di assassinati - sento il dovere di appellarmi a voi - figli e nipoti dei colpevoli - e di mettervi in guardia dalla "istituzione ebrei". Mi appello a voi, figli e nipoti ancora viventi di Eichmann, perché vogliate uccidere anche i primi, i più piccoli germi delle ripetizione di ciò che è accaduto trentacinque anni fa. Questo appello io, solo per caso sopravvissuto, non lo rivolgo ai nostri Migliori - non a noi, un paio di "avanzi' - ma ai vostri Migliori perché ad essi venga risparmiato ciò che è accaduto ad alcuni dei loro padri e dei loro nonni: e cioè, di diventare degli impiegati dei campi di annientamento e poi, dopo aver assolto questo "job", di trascorrere il resto della vita come ex assassini di massa. Una vita del genere non sarebbe soltanto vergognosa ma anche profondamente infelice (la lingua tedesca riunisce entrambe queste parole nell'unica parola "unselig": funesta, sciagurata). Ed ora veniamo al mio essere ebreo. ~ e mi chiedete quando mi sono sentito ebreo per la pri- ~ ma volta, vi racconterò la storia che segue: Quando un mio amico di religione evangelica - avevamo otto anni, dunque era l'anno 1910 - ad una mia domanda: "A cosa credi tu veramente?" rispose (naturalmente in modo infantile): "lo credo a questo, che noi siamo stati redenti" - ed io che prima d'allora non avevo mai udito la parola "redento" e ancor oggi, dopo settant'anni, la capisco assai poco, gli chiesi ancora: "Redenti da cosa? Dalla fame o da qualcosa del genere? Da tutto questo, io sono già redento"; ed egli mi rispose con disprezzo: "Ma chi è che ha ancora fame! No, redent.o, naturalmente, dal peccato .... " - ed io continuai a chiedergli: "Perché naturalmente? Io, per esempio, non ho nessun peccato. E che significa peccato in realtà?"; ed egli rispose: "Che sciocchezze! Siamo tutti peccatori - questo sta già persino nella Bibbia! Ma noi siamo stati redenti, e voi no, ecco!" - - ed io chiesi di nuovo: "E perché noi no?"; ed egli rispose: "Perché voi avete messo sulla croce il nostro Redentore!" - ed io lo rassicurai: "Parola mia d'onore! Questo, io non l'ho proprio fatto! E certamente neppure mio padre e mio nonno! Ma, per sicurezza, lo chiederò a mio padre!"; al che egli mi rise in faccia con espressione saputella e mi piantò in asso e il giorno successivo non parlò più con me - e il terzo giorno io gli chiesi: "Perché mi eviti così, davanti a tutti?"; ed egli rispose: "Già, come se tu non lo sapessi!" - allora, per la prima volta io sentii che qualcosa in me non era completamente in ordine. E questo qualcosa significava: essere ebreo. E se mi chiedete quando ho percepito per la prima volta il destino ebraico della persecuzione, risponderò: quando avevo quindici anni, nell'anno 1917,dietro al fronte franco-tedesco, nel villaggio di Rimogne dove noi - "noi", cioè a dire i ginnasiali di Amburgo riuniti in una Associazione paramilitare - avevamo il compito di fare la raccolta nei frutteti francesi (ad uso dell'esercito tedesco) - e qui mi si manifestò il destino ebraico. Io ero diventato, segretamente, amico di un "nemico mortale", cioè del figlio di un franc-tireur ucciso dai tedeschi, un quindicenne come me; e noi facemmo insieme giuramento con le parole del Salmo "forgiare i vomeri dalle spade" e fondammo insieme festosamente un primo Volkerbund - "unio populorum", così lo chiamammo dal latino che era - visto che io non parlavo francese ed egli non parlava tedesco - la nostra lingua comune. Ma quando questo "traffico di alto tradimento" con

8 APERTURA/ANDERS un nemico mortale trapelò, allora io dovetti patire la stessa cosa che, in seguito, ho dovuto patire migliaia di volte: fui torturato. Ogni notte venivo innaffiato con acqua gelata e spalmato di sudiciume (allora non conoscevo ancora la parola "tortura"). Così - almeno per quello che fui costretto a lasciar fare su di me - mi trovai all'avanguardia; talmente all'avanguardia che, sedici anni dopo, i misfatti dei nazisti non riuscirono a sorprendermi più di tanto. E se mi chiedete quando mi sono sentito per la prima volta legato al passato ebraico o a quello che forse, pensando ai profeti e a Gesù e a Marx, si potrebbe chiamare - lo dico senza nessuna superbia - la "missione ebraica", rispondo: "È stato quarant'anni dopo, quando nel 1958, sulla piazza del mercato di Kyoto, io predicai ad un gruppo di preti buddisti rannicchiati davanti a me sul selciato - era la sera prima dell'anniversario del Giorno-di-Hiroshima - sì, io predicai che una Hiroshima universale non solo è possibile ma anche probabile; che il compito di evitare questa fine è di tutti noi; che noi - tutti ugualmente minacciati, non importa dove viviamo, non importa che fede abbiamo o non abbiamo - che tutti noi siamo diventati "il nostro prossimo più prossimo", che ciò che può colpirci tutti deve riguardarci tutti. E mentre predicavo - nonostante che personalmente io sia un ateo (ma, la passione, non importa se si annida nell'anima di un credente o di un non credente) - dunque, mentre io predicavo così, nel bruciante calore d'agosto del Giappone del Sud, sentii di non essere solo; ma queste parole ammonitrici mi venivano come sussurrate dai Profeti di sventura dell'Antico Testamento". E se infine mi chiedete in quale giorno io mi sia più profondamente vergognato - no, non di essere ebreo (che di nulla mi vergogno di più che quando incontro un ebreo che si vergogna di essere ebreo), ma in quale giorno io mi sia più profondamente vergognato di essere ancora qui come ebreo, allora rispondo: "È stato quel giorno d'estate, sette anni dopo Kyoto, quando mi sono trovato ad Auschwitz davanti a montagne di scarpe, montature di occhiali, dentiere rotte, ciuffi di capelli tagliati e valige a mano ormai prive di padrone. E tra queste cose avrebbero dovuto trovarsi anche i miei occhiali, i miei denti, le mie scarpe, la mia valigia. Allora io - che non ero stato deportato ad Auschwitz, che da tutto questo ero venuto fuori per un caso - io mi sentii come un disertore. E non ebbi il coraggio di pensare: "Grazie a Dio, sono ancora qui". Giacché come potrebbe un uomo, messo di fronte ai milioni di uomini che - in nulla più colpevoli di quello stesso uomo - se ne sono andati in fumo, pronunciare il proprio grazie per aver avuto, lui proprio, una tale "chance"? E chi si dovrebbe ringraziare per il fatto che l'annientamento di sei milioni di uomini non è stato impedito da nessuno? Lasciatemi indugiare un attimo su questa vergogna di esistere oggi ancora qui in quanto·ebreo - di non essere tra quelli che sono stati annientati ad Auschwitz o a Maidaneck. Una tale vergogna ha una preistoria. Essa è infatti la punta più manifesta di un stupore che è sempre stato alle fondamenta del mio essere ebreo; Io stupore di essere venuto al mondo ancora come ebreo. Questo stupore non mi ha lasciato un giorno solo dopo il mio primo incontro con la storia abnorme del popolo ebraico. Naturalmente esso non riguardava solo il mio personale "essereancora qui", ma il fatto che noi esistiamo ancora: noi, la cui preistoria e la cui storia è consistita in una ininterrotta "catena di lacerazioni" - di migrazioni, persecuzioni, fughe e massacri. Il meglio che ci è stato concesso - le poche volte che, eccezionalmente, non siamo stati perseguitati - è stato di poterci unire ad altri popoli; e tuttavia questa per noi era, in un certo senso, una fine, perché, in casi del genere, sparivamo in quanto ebrei. Di solito, non è chiaro a nessuno che la fine del popolo d'Israele, nella sua maggior parte, è avvenuta prima in Egitto, poi in Babilonia - né occorre che io enumeri qui tutte le stazioni successive. In Egitto, già nel tredicesimo secolo prima della nascita di Cristo, i miei pro-progenitori avrebbero potuto far parte di coloro (la maggioranza dei loro simili) che si unirono a quella popolazione (e i cui pro-pronipoti sono forse caduti ieri, da buoni egiziani, combattendo contro gli israeliani). Ma stiamo precorrendo i tempi. Restiamo all'esodo dall'Egitto - al quale, cosa stupefacente, hanno preso parte, hanno certamente dovuto prender parte, i miei pro-progenitori - giacché altrimenti non sarebbero arrivati, dopo aver vagato tanti anni nel deserto, alla "terra promessa", e allora io non sarei qui e non sarei io. D'altra parte, i figli dei figli di quella minoranza che poterono integrarsi, come migliaia di loro simili, come, di nuovo, la maggioranza di loro, in Babilonia - dov'erano stati fatti trasmigrare - costoro, per rimanere lì, di certo hanno già saputo parlare il babilonese (forse anche !'"alto-babilonese") con la stessa naturalezza con la quale oggi io vi parlo (non già, ma ancora) il tedesco. Ma ancor più stupefacente è che i miei pro-genitori abbiano, ancora una volta, fatto parte di quella minoranza che dalla Babilonia fu riportata indietro in Palestina - altrimenti io non sarei qui e non sarei io - e durante le migrazioni successive non si siano fermati né ad Alessandria né a Toledo né Dio sa dove, ma siano sempre andati avanti. E che ancor oggi esista questo resto dei resti - e che per caso anch'io appartenga a questo resto dei resti - questa è la cosa della quale io, da decenni, continuo a stupirmi; e dalla quale in nessun caso mi auguro di "redimermi". Giacché il pensiero che le tante salvezze comprate a prezzo di sangue dovevano essere inutili è così difficilmente sopportabile, che a nessuna condizione io cederei il "Bene" salvato (anche se non saprei proprio definire in cosa esso consista). r-:, unque io mi dichiaro ebreo e sono deciso ad essere sot- .... terrato come tale - anche se, certo, senza rabbino e in un luogo qualunque. Noi che vi parliamo siamo "gli ultimi" - cioè gli ultimi ebrei, che un tempo e con ragione si sono chiamati "ebrei tedeschi" e che hanno vissuto in simbiosi (non esiste altra parola che questa, per quanto discutibile) con i tedeschi. Misurata in tempi storici, questa simbiosi per la verità non è durata a lungo; appena un centinaio di anni, quindi molto meno di quella ch'è esistita con altri popoli. Ma per i nostri genitori e i nostri nonni questa simbiosi è stata assolutamente naturale - cosa che

voi, lettori miei, probabilmente non vi immaginavate: così naturale, come se fosse esistita dai tempi dei tempi. C'è stato persino un filosofo ebreo-tedesco (il "rinnovatore" di Kant, Hermann Cohen) che era convinto che esistesse tra le due culture una affinità dovuta, in un certo senso, a Dio stesso. E se mio padre sottolineava - e questo l'ha sempre fatto, quando il discorso veniva a cadere su problemi ebraici - che si sentiva incomparabilmente più tedesco che ebreo, diceva certo la verità. Altro è, naturalmente, sapere se egli fosse considerato dai non ebrei più tedesco o più ebreo. Ma su un simile problema egli non si rompeva la testa - e non lui soltanto, visto che molti dei suoi intelligentissimi amici in questo caso erano cechi, anzi stupidi. Su questo gli uomini della sua generazione - cioè quelli nati cent'anni fa - hanno avuto poi molto da disimparare, negli anni '30 (per quanto poco sia stato il tempo loro concesso per disimparare). Essi che, ingenuamente, avevano portato con sé nei campi di concentramento le Croci di Ferro che si erano guadagnate come volontari nella prima Guerra Mondiale, non dubitando che tali onorificenze avrebbero potuto perdere la loro validità. Noi, i loro figli, sappiamo meglio (o anzi: peggio) che siamo gli ultimi della linea di quegli ebrei tedeschi che hanno considerato la Germania come loro patria, anzi come la Patria, la lingua tedesca come la lingua, la musica tedesca come la musica. E come "ultimi" guardiamo dietro di noi, ai nostri predecessori - i Mendelssohn e gli Heine e i Marx e gli Einstein - e lo sappiamo: dopo di noi non verrà più nessuno che si definirà o sentirà ebreo-tedesco, o che entrerà nella storia della Germania. E tuttavia - senza tener conto di questo "addio" - di ebrei tedeschi ne esisteranno ancora per qualche tempo, forse anche per un lungo tempo. Voglio dire: fuori dalla Germania. Noi raccoglieremo e cureremo il raccolto in terre straniere, come gli ebrei scacciati hanno sempre fatto. I figli e i figli dei figli degli ebrei spagnoli sbattuti nei Balcani hanno per lungo tempo parlato "lo spagnolesco", uno spagnolo antico da molto tempo perduto persino nella madre patria. Io stesso, nel ventesimo secolo, l'ho sentito parlare da loro. La stessa cosa vale per gli ebrei scacciati, nel Medioevo, dalle regioni del Reno in quelle dell'Est. Per secoli essi hanno parlato ancora il tedesco di quell'epoca antica - lo Jiddisch è infatti un tedesco medioevale da loro conservato e che ancora oggi viene parlato da migliaia di persone in Israele, negli USA e nell'URSS. E questo ruolo di "conservatori" lo pratichiamo anche noi - per lo meno molti di quelli che furono cacciati dalla Germania nel 1933. Le cattedre di germanistica tra la California e l'Australia saranno mantenute grazie a noi. Per esempio, chi vuole oggi lavorare su Novalis deve andare a Melbourne. E siamo noi che traduciamo la letteratura tedesca, classica e contemporanea, in lingue straniere. Siamo sempre stati noi - questo l'aveva già visto Herder - che siamo stati segretamente i messaggeri e gli ambasciatori di coloro che più tardi hanno attentato alla nostra vita. E lo siamo oggi ancora. Non chiediamo di essere ringraziati per servizi come questi, però vogliamo che voi ne prendiate conoscenza. Ma c'è ancora una ulteriore ragione per la quale io mi APERTURA/ANDERS 9 definisco "ultimo". E questa ragione è molto personale, molto familiare. Io non sono assolutamente stato educato come un ebreo, non ho mai conosciuto un rituale ebraico, e non appartengo neppure all'ebraismo nazionale, cioè a dire non sono né sionista né israeliano. E che nonostante questo io mi sia sempre categoricamente rifiutato di rinnegare il mio ebraismo - o di rinunciarvi del tutto - è certo, perfino per me, assai difficile da capire adesso. Questa situazione è tanto più strana, in quanto io non sono il primo afar parte degli ultimi. Anche mio padre apparteneva già agli 'ultimi', ed anche suo padre - e persino il padre di suo padre, cioè il mio bisnonno. Il quale già centoventicinque anni fa, fondò a Berlino insieme ad alcuni amici, la cosiddetta "Comunità riformata" ("Reformgemeinde"), con la quale si proponeva di realizzare una fusione con la popolazione non ebrea, cioè con i protestanti prussiani; forse anche allo scopo di tenere in qualche modo a bada quegli ebrei che, dopo la rinuncia alla ortodossia, venivano colti dalla tentazione di rinunciare completamente anche al loro ebraismo. In breve: il mio bisnonno e i suoi amici si costruirono un tempio, che visitavano la domenica invece del venerdì sera; nel quale entravano, contro un'usanza bimillenaria, a capo scoperto; dove poi, invece di un servizio divino ebraico, ascoltavano una predica in lingua tedesca e dove infine, invece di far cantare al Cantore le sue Monodie orientali, intonavano Corali a quattro voci (composte, tra l'altro, dal giovane Meyerbeer) che avrebbero potuto risuonare in una qualunque chiesa protestante. Dunque, io discendo da questa tradizione dell'antitradizionalismo ... Già il mio bisnonno stava per perdersi del tutto su questa strada; ma, incomprensibilmente, ciò non è accaduto né a lui né a suo figlio né al figlio di suo figlio né al figlio di quest'ultimo (cioè a me). Anche se questo ~uò sembrare paradossale, gli unici oggetti che legavano ancora mio padre all'ebraismo e che egli mi ha lasciato in eredità sono le melodie della "Comunità riformata", assolutamente non ebraiche ma prese in prestito alla Chiesa Protestante, dunque pezzi che in realtà non testimoniavano l'ebraismo e semmai erano un ebraismo annacquato. E se mio padre era orgoglioso del suo avo ebreo, lo era proprio e solo perché costui aveva cominciato a de-ebraicizzare l'ebraismo. Il suo orgoglio per lui, il "fondatore", era talmente grande che mi diede da portare il suo nome. E quando poi, nell'anno 1911, rifiutò una proposta molto onorevole, quella di diventare Ordinario presso l'Università di Berlino, a patto di volersi adattare ad una "piccola formalità" (così si diceva), cioè al battesimo, questa rinuncia egli la compì per la sua "pietas" nei confronti di quell'uomo che pure non era più riconosciuto come un vero ebreo dagli ebrei ortodossi (e lo dimostra la storia degli ebrei di Graetz). Da tanto tempo dunque esistevano "ultimi ebrei tedeschi". Io però sono effettivamente "l'ultimo ultimo" della mia famiglia. Se il mio bisnonno, nei giorni in cui fondò la sua Comunità riformata, avesse intuito come sarebbe proseguita la storia, anzi, come in realtà è proseguita nel frattempo! Infatti - e con ciò arriviamo al coronamento di questa strana "corsa del destino" - il suo pro-pro-pro-pronipote è di nuovo diventato un "primo ebreo", dato che è nato nel 1947 a Gerusalemme. E

10 APERTURA / ANDERS dato che già esiste laggiù anche il figlio di quest'ultimo, dunque il suo pro-pro-pro-pro-pronipote, (io non posso più interdermi con questo bambino di tre anni, che parla esclusivamente ebraico), tutti gli sforzi di mio nonno per realizzare un felice compromesso riformistico sono stati completamente inutili. ~ e noi "ultimi" - io, uno fra questi - ci voltiamo in- ~ dietro a guardare la vita che noi e i nostri genitori e i nostri nonni abbiamo condotto da quando le mura del ghetto sono state abbattute e noi abbiamo cominciato a prendere parte alla vita commerciale e spirituale dei popoli che ci ospitavano, allora constatiamo che una parte sproporzionatamente grande di noi ha fatto parte dei "primi": cioè a dire della avanguardia in tutti i campi, dalla cultura all'economia e alla politica. Con questo, per l'amor di Dio, non si vuol dire che siamo più dotati e più geniali di altri popoli o che avremmo il diritto di vantare qualche merito speciale. Quello che intendo, piuttosto, è che noi - dopo che ci siamo lasciati dietro la legge ebraica, rifiutandoci però di abbracciare, per ragioni di opportunità, altri dogmi morali o religiosi - abbiamo avuto l'opportunità di crescere privi di legami, voglio dire: liberi da pregiudizi. Di fatto, ci è stato facile procedere verso orizzonti inattesi, verso nuove verità; gli ostacoli spirituali e morali che dovevamo superare per poter progettare o scoprire il nuovo erano - una volta che avevamo spezzato i muri dell'ortodossia ebraica - meno resistenti degli ostacoli che dovevano superare i nostri amici e compagni di lotta non ebrei. In effetti, il numero dei "pionieri" e dei nuovi pensatori d'origine ebrea - mi basti ricordare i nomi di Marx, Einstein, Freud, Husserl, Schoenberg - è smisuratamente elevato. E, allo stesso modo, smisuratamente elevato è il numero degli ebrei che sono diventati rivoluzionari, che hanno potuto diventare rivoluzionari (e questo "potere" l'hanno dovuto pagare col sangue, come Rosa Luxemburg). Mi è stato chiesto spesso (di rado senza una qualche intenzione; perlopiù in modo stupido e maligno, per esempio dagli investigatori dell'FBI) perché la percentuale dei comunisti ebrei è così vistosamente alta; al che io cercavo di spiegare, perlomeno ai non male intenzionati - non contestando affatto la differenza di proporzioni - che il loro andare verso i movimenti rivoluzionari di liberazione non è stato altro che un proseguimento naturale della loro auto-liberazione dal ghetto e che essi hanno visto nel mondo capitalistico, in cui erano entrati, un secondo ghetto; il ghetto, straordinariamente grande, delle vittime dell'ingiustizia, che bisognava liberare. Questa opinione è stata, per decenni, anche la mia; e certo, anche in questo: io ero molto ebreo. Ma c'è un altro motivo per cui noi ebrei abbiamo fornito tanti rivoluzionari. Perché - non altrimenti che i nostri padri e i nostri antenati ordodossi, di cui inconsapevolmente abbiamo portato avanti l'eredità, e ancora oggi la portiamo - siamo sempre stati convinti di questo: che il messia non è ancora arrivato, che la sua venuta deve ancora avverarsi e noi dobbiamo appianargli la strada. Questo orientamento nei confronti del futuro è parso anche provato dal trionfo del concetto borghese di progresso, che gli ideologi della rivoluzione hanno assunto come un credo indubitabile. "Non-ancora": questa categoria è addirittura diventata il concetto guida di un filosofo che si è sentito molto vicino alla rivoluzione e che è - se solo avesse voluto ammetterlo - molto ebreo: Ernst Bloch. Si, l'attendere il "Non-ancoraavverato" sì è secolarizzato presso di noi - gli ebrei fuggiti dall'ortodossia - e si è mutato in attività rivoluzionaria. Già da bambino - anche se ancora non avevo udito nulla né del messianismo né del marxismo - niente mi pareva così poco credibile quanto la tesi secondo la quale - come avevo udito sostenere alla lontana - il Salvatore c'è già stato. Credere a questo mi sembrava semplicemente una sfrontatezza di fronte alla strepitosa miseria che avevo visto fin dal1'infanzia, soprattutto tra i tessitori della montagna Eulengebirge. Anch'io ho vissuto per molti anni - ed anche in questo ero molto ebreo - nell'attesa del "Non-ancora", del Regno messianico da fondare. Fino al 6 agosto 1945 - il giorno che si chiamò Hiroshima - quando come un lampo balenò in me la convinzione che forse - anzi addirittura molto probabilmente - noi siamo sospinti verso un "Non più". Questa fu la fine del mio messianismo. Ernst Bloch - al quale spesso, quando l'ho incontrato, ho cercato di "avvicinare" Hiroshima - non ha mai voluto saperne nulla: evidentemente egli non aveva né l'elasticità, né la forza, per compiere questa "svolta copernicana" dal "Non-ancora" al "Non-più". Egli era - e questo ci divise - incapace di intendere quello che oggi è il nostro compito: cioè di vivere senza speranza. In questo era più ebreo di me. E dunque, forse non è un caso che fra quelli che hanno dato ascolto ai miei avvertimenti sul "Non-ancora" - ininterrotti dal 1945 - non ci sia stato nessun ebreo, tranne il grande Max Born. Fissi all'idea del Regno che deve venire o che dev'essere fondato da noi, i più sono rimasti incapaci di pensare ad una "Apocalisse senza regno". Ma siccome io parlo a non ebrei, vorrei - anzi no, devo - comunicarvi qualcosa che riguarda un'espressione che da voi generalmente - senza vostra colpa - viene male interpretata e la cui comprensione è di grande importanza per la chiarezza dei rapporti tra voi e noi. Fare questo è il mio dovere di ebreo - insomma fa parte chiaramente del "mio ebraismo". Fin dalla vostra infanzia, voi credete che noi ebrei crediamo di essere un "popolo eletto" da Dio (1). Ma, per quanto riguarda questa espressione (Max Weber ne ha già parlato ampiamente nella sua sociologia della religione), ecco come stanno le cose in realtà: l'espressione viene (come ci mostra il Salmo l05, 8-14, nel quale essa appare per la prima volta) dall'epoca premonoteistica - la cosiddetta epoca "enoteistica" dell'ebraismo - nella quale Yahwèh si considerava il "Dio fondatore" degli ebrei, col cui progenitore Abramo aveva stretto un "patto monopolistico" di reciprocità; viceversa, gli ebrei si consideravano gli unici partner nel patto con questo Dio. Quando nacque l'espressione "prescelto", l'idea che Yahwèh potesse essere anche il Dio di altri popoli era certo lontanissima da quei nostri 1) L'espressione "auserwaehlte Volk" usata da G.A., si può tradurre come popolo eletto, o prescelto o prediletto. Nella pagina che segue usiamo tulli i tre questi aggellivi, secondo le diverse intenzioni del discorso dall'A. (N.d. T.)

antenati - tanto più lontana in quanto essi non avevano nessuna missione da compiere, non cercavano di portare il loro Dio presso altri popoli. A quel tempo, molti altri popoli possedevano a loro volta i propri "Dei fondatori" e tutti i popoli erano "popoli eletti" dai loro Dei, né gli ebrei contestavano la esistenza e la potenza di questi altri Dei, solo che non potevano trattare con questi Dei stranieri, non potevano avere nessun altro Dio che il proprio. Tutto andò bene fino a che si verificò un evento storico mondiale, quando popoli non ebrei adottarono l'antico testamento e mutarono il Dio degli Ebrei nel Dio di tutti. Allora accadde l'inevitabile: i non ebrei dovettero credere che il popolo ebreo si ritenesse il "popolo preferito" di questo Dio universale. In tale malinteso (che noi, sempre per malinteso, ci riteniamo il "popolo eletto") certo siete cresciuti anche voi, lettori miei. Infatti tale malinteso si diffuse presto in tutta la cristianità. Ma non tra gli ebrei. Io perlomeno non ho mai incontrato un solo ebreo che si sia vantato di questa presunta ''predilezione''. Tale espressione l'ho udita per la prima volta sulla bocca dei miei compagni di classe che, quando mi picchiavano, ad ogni colpo mi invitavano con scherno: "E allora faccelo vedere, come sei prediletto!" - un invito che io non soltanto non potevo seguire, ma che assolutamente non capivo. Tre decenni più tardi, nei primi anni '40, c'è poi stata davvro una "preferenza" di ebrei, della cui realtà non è possibile dubitare. Questa "preferenza" - straniata, per la vergogna dei nazisti, con il termine accademico di "selezione" - per la verità non fu voluta da Dio (e tuttavia neppure evitata da Lui) ma dagli uomini; essa si dimostrò ad esempio sui binari della Stazione ferroviaria di Birkenau, dove si "preferivano" quelli ch'erano ancora capaci di lavorare, per una continuazione transitoria della vita e del lavoro, mentre gli altri venivano immediatamente portati nei forni a gas. Questa "predilezione" è la sola, nella quale io credo. C'è tuttavia qualcosa che mi ha legao fin dagli anni dell'infanzia all'ebraismo: e cioè, il comandamento del decalogo che vieta di fabbricare e di adorare idoli. A parte il fatto che da bambino io disegnavo dalla mattina alla sera - e che negli anni '20 ho persino fatto, temporaneamente, la guida turistica del Louvre - questo divieto per me è rimasto ininterrottamente valido. Non so chi mi abbia ispirato tanto orrore - orrore legato a quel comandamento - per l'adorazione idolatrica di cose fatte da uomini. Di certo non l'ho ereditato dai miei genitori. Giacché essi - propensi com'erano alla tolleranza - educavano quotidianamente noi bambini a dimostrare il massimo rispetto e la più grande riservatezza nei confronti delle religioni cristiane (che, naturalmente, comprendevano anche i numerosi crocifissi esistenti nella mia Slesia natale). A questa esigenza io non mi sono mai opposto, tuttavia già a nove o dieci anni, quando potevo, trovavo sempre una scusa per evitare i crocifissi. Mi era particolarmente difficile essere presente quando degli esseri umani cadevano in ginocchio - cosa che accadeva spesso - davanti a una immagine d'uomo fatta da altri uomini (immagine che per di APERTURA/ANDERS 11 più incomprensibilmente, rappresentava uno dei nostri). Tale allergia a quello che da bambino chiamavo - in modo rozzo e sconsiderato - paganesimo, di fatto è rimasta così profondamente radicata in me che anche più tardi, quando ero studente di storia dell'arte, solo di rado riuscivo a entrare nelle chiese per godere, in modo estetico, delle statue dei Santi (che, in realtà, non erano esposte in quei luoghi per mera contemplazione o diletto!). L'interesse artistico per gli oggetti sacri - cioè la trasformazione del religioso in qualcosa di meramente culturale - mi ha sempre riempito di profondo sospetto; cosa che a volte ha provocato il più assurdo dei malintesi. Accadde infatti che certi studenti di teologia cristiana, cui ero legato da amicizia, videro in me - l'agnostico - un complice, e mi sospettarono di religiosità segreta. Alla mia diffidenza era poi anche legato il fatto che provavo fastidio quando dei musicisti ebrei come Bruno Walter o Klemperer (Mendelsohnn e Mahler, in ciò, erano stati precursori) eseguivano Passioni o Messe. Trovavo la cosa sconveniente ed evitavo questi concerti: al contrario di mio padre che - assai più ingenuo di me - aveva cantato, ancora innocente ed entusiasta, nel Te Deum di Bruckner. Ma per tornare al divieto d'immagine: esso prese per me - adolescente e poi adulto - un significato sempre crescente. Soprattutto dal momento in cui nel mio orizzonte entrò Marx. Il quale - nonostante il suo passaggio dal monoteismo all'ateismo - nei confronti delle immagini provava, non ancora indebolito (ne sono convinto ancora oggi), il furore distruttivo tipico del monoteismo ebraico. Nelle ideologie che combatteva e che denunciò come "falsa coscienza", egli vedeva gli idoli della sua epoca - creati dalle classi e che bisognava distruggere; quegli idoli che venivano imposti dai dominanti ai dominati fino a che questi, vinti, facevano propria quella "falsa coscienza" ed erano persino pronti a rischiare la vita in sua difesa. lo credevo inoltre - e lo credo oggi ancora - che Marx - quando annunciava un tempo finale non più bisognoso di filosofia e dunque libero dalle ideologie postrivoluzionarie - con ciò intendeva una vita libera dalle ideologie. Come ho già detto, questa passione ebraica contro gli idoli è rimasta dentro di me..Ma il suo punto più alto lo ha raggiunto durante il nazionalsocialismo, le cui Celebrazioni - per tacere del culto del Fuehrer - non erano nient' altro che un servizio rituale per idoli. P:! erto voi aspettate da me - e con ciò arrivo ai salvati ~ da Auschwitz - una risposta alla domanda (1) su come io mi pongo nei confronti di Israele. Su questo, ho due risposte pronte. La prima: io sono stato laggiù e sono profondamente impressionato dal lavoro compiuto, commosso dal fatto di vedere uomini ebrei che vivono la loro vita a testa alta. Sono felice che al mondo esista un luogo dove gli eterni scacciati si sentono a casa. E l'idea che questo paese potrebbe diventare una seconda Auschwitz mi è semplicemente insopportabile. Dunque, dico si a Israele. I) In tedesco: "Gretschenfrage", "domanda di Margherita" (con riferimento alla Margherita del "Faust" di Goethe, che pone spesso quel tipo di domande semplici, che tuttavia richiedono risposte difficili e complesse) (N.d. T.).

12 APERTURA / ANDERS Ma - e con ciò vengo alla seconda risposta - io là non potrei vivere mai. Perché questo paese (non so se ancora o già) è terribilmente provinciale e "up-to-date", voglio dire che non è aperto ai problemi decisivi dell'oggi - come quello della tecnocrazia e della minaccia atomica - problemi che da decenni mi occupano come i veri compiti attuali. E poi perché, ad ogni evento mondiale decisivo, esso si chiede sempre e soltanto: "Questo per noi è buono o è dannoso?" perché esistono laggiù resti di teocrazia che, per me, sarebbero insopportabili. E perché, fast but not least, c'è il grosso pericolo che gli eterni oppressi possano trasformarsi in oppressori, ammesso che non lo siano già diventati un po' - e ciò sarebbe, moralmente, ancor più orrendo di qualsiasi progrom ch'essi hanno subito. Ma il mio "no" ha ancora una ragione ulteriore: io ho il sospetto - anche queste parole, probabilmente indigneranno gli israeliani - che la fondazione del proprio stato popolare sulla propria terra (o sulla propria presunta terra) sia il coronamento di quella volontà di assimilazione, che i Padri fondatori del sionismo avevano sperato di superare. Ciò che infatti essi avevano sognato era, sì, di diventare anche un popolo, anche una nazione, anche uno stato. Come tutti i popoli, le nazioni, gli stati "normali". Questa bramosia per un "anche" proviene dal tempo dell'assimilazione. Con questo, il fatto che il passo sionistico dalla "esistenza straniera" a una "esistenza propria" (passo che, specialmente se visto dalla prospettiva del ghetto, era stato incontestabilmente rivoluzionario) visto dal punto di vista della storia mondiale risulterà un passo indietro nel IX secolo; cioè nel secolo dei nazionalismi. Di fatto tutti i movimenti nazionalisti d' Africa ed' Asia - nonostante i loro caratteri progressisti ed antiimperialisti - hanno in sé qualcosa di reazionario, specie se li si paragona all'attuale tendenza - imposta anche dalla tecnica e già realizzata su vasta scala - verso l'unificazione dell'umanità, l'abolizione delle frontiere, la relativizzazione delle'•, Sovranità nazionali. E alla realizzazione di questi fini attuali, l'ebreo che si sente in patria ovunque e in nessun luogo - che sta di casa a Bangkok altrettanto bene come in Messico o a Roma o a Los Angeles - potrà contribuire molto di più che il suo cugino nello Stato di Israele. "Voi siete il sale della terra" queste parole di Gesù non si rivolgevano agli ebrei in quanto ebrei, ma ai suoi discepoli (che naturalmente erano ebrei). Ma essere sale nella farina, e non semplicemente farina, questo è stato il grande ruolo che gli ebrei hanno avuto negli ultimi cento o centocinquant 'anni in Europa e in America. E in questo ruolo di sale io mi riconosco. · F.I rrivo a~la conclusione: Due anni fa mi sono trovat~ W davanti al Muro del Pianto a Gerusalemme - davanti ai resti delle mura del tempio, demolite dai romani nell'anno 70. Nel luogo, cioè, dove ha avuto inizio - circa settanta generazioni fa- il destino dell'ebreo errante, che poi è stato ancora il mio. Ed anch'Ìo sono stato commosso da questo · luogo. Ma sostenere che per me il cerchio si fosse chiuso - ch'io mi sentissi come chi è tornato a casa - questa non sarebbe la verità e questo non volevo darlo ad intendere nemmeno a me stesso. Infatti per me - l'emigrante che solo in un luogo casuale è divenuto residente - "l'essere in cammino" è diventato "l'essere a casa". Questo destino dell'essere privo di patria fa di me un ebreo - non questo pezzo di Muro. A differenza dei due uomini che mi stavano a destra e a sinistra. Infatti, per loro, era evidente, quel luogo era chiaramente diventato il Luogo dei Luoghi, stavano lì come in trance e, dondolandosi a destra e a sinistra, mormoravano preghiere e continuavano a baciare quelle pietre insensibili, per le quali probabilmente erano giunti dall'America. Uno di loro, con la barba bianca, aveva pressapoco la mia età, cioè 75 anni, l'altro, più o meno trenta. Se il vecchio non avesse avuto l'aspetto che aveva mio padre poco prima della sua morte - il giovane, da parte sua, avrebbe potuto essere mio nipote - io li avrei sentiti entrambi (loro che, baciando il Muro idolatravano una Cosa fatta da uomini) profondamente non ebrei. I Profeti si sarebbero infuriati per questi baci - ed io, il non credente, il rinnegato, io ero l'alunno dei profeti e mi sentivo profondamente colpito da questo comportamento idolatrico. Mio "nipote" non si lasciò distrarre, nelle sue occupazini idolatriche, da nessun turista - dunque, neppure da me. Il vecchio invece - quello con la barba, che naturalmente aveva subito riconosciuto in me l'ebreo - mi rivolse - senza interrompere il suo mormorio - ripetuti sguardi fuggitivi ma esaminatori, perché il fatto ch'io non pregavo in questo luogo naturalmente lo scandalizzava. Per la verità - ma come avrei potuto spiegarglielo? non avrei proprio potuto pregare, io neppure volevo poter pregare. Giacché - a differenza dei miei genitori e dei miei nonni, che avevano troppo poco coraggio per confessare a se stessi di non avere più un credo - io sapevo in modo assai preciso che non sapevo più nulla di quello che s'intende con la parola "pregare". Alla fine, comunque, mio "fratello" si volse completamente verso di me, scosse la sua testa barbuta come uno che è sconsolato per la stoltezza del suo prossimo e parlò, battendosi il cuore con la mano sinistra, in puro dialetto di Brooklyn: "Without us you wouldn't be there - senza di noi tu non saresti più qui" - per poi tornare a perdersi, dopo questa breve comunicazione, nei suoi dondolii e mormorii; che faceva - come lui stesso riteneva - per amore di tutti gli ebrei e dunque anche per amor mio. Non posso sostenere di averlo immediatamente capito - anche se la sua idea non mi era affatto estranea. Comunque, per non disturbarlo in quel suo comportamento, a me così estraneo, mi allontanai sulla punta dei piedi: cosa di cui egli non si accorse neppure. Presto, però, intesi ciò che il vecchio aveva voluto dirmi, ed oggi qui vorrei esprimergli il mio ringraziamento, anche se so per certo che egli non lo riceverà mai. Sì, io che balbetto appena mi viene chiesto in cosa consiste il mio ebraismo; io, che ho passato la· mia giovinezza senza la. Thora;

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