Linea d'ombra - anno V - n. 18 - maggio 1987

POESIA/ORDINE che significa resistenza eterna, rifiuto di ogni normalità imposta o importata. I rimandi alla tradizione letteraria possono essere espliciti, come nelle ultime raccolte, o impliciti senza per questo perdere la loro forza: nel 1940 il poema Vestita di luce cantava lo splendore e la mistica eternità di Praga, in un susseguirsi di immagini affascinate e capaci di risuonare nell'intimo di ogni lettore ceco; non c'era in superficie alcun proclama politico, eppure quel montaggio di sequenze luminose o nostalgiche fu lo sprone e l'emblema della lotta all'invasione, il segno del fallimento, in terra boema, dei progetti del conquistatore. In tal modo aveva inteso Seifert il suo poema e in tal modo, senza equivoci né incertezze, esso fu recepito dai suoi lettori, come ben sanno a tutt'oggi i padroni di Praga che se avessero avuto santi li avrebbero pregati di nascondergliela, la penna. La lirica di Seifert è a un altissimo livello d'espressione, soggettiva, sensuale e raffinata, tanto da poter dare soddisfazione al più smaliziato fra i liceali d'occidente (a cui spesso s'insegnano strane cose sulla poesia del '900); e però incalcolabile è la sua portata civile, oggettiva, politica persino. È paradosso da levare il sonno solo a chi frequenti con superficialità le plaghe boeme (ciò che forse si può dire anche degli attuali abitanti del castello di Praga). Per qualche verso sconcertante può poi essere l'immagine della città d'oro così com'è presentata dal poeta; in chi è abituato a leggere della cala di demonie, di nebbie sulfuree, di malinconie alchemiche, in chi è avvezzo agli abissi metafisici, alle Kafkerie e alle kafkate (Kafkeria è la traduzione di "Kafkarna", titolo di uno splendido racconto di B. Hrabal, il termine ha affinità tipologica con parole come "letteria", "panetteria"e simili, a indicare un luogo dove si vendono i Kafka; kafkata, lasciando perdere le affinità, è invece genere letterario periodicamente in voga in Italia e altrove), in chi è affezionato al genio sghignazzante ed aspro di Svejk e dei suoi epigoni può destare stupore la melodia apparentemente conciliata, la teoria di immagini nostalgiche, tenere, emozionate, la sensualità lieve e talora impertinente di cui si compone in questi versi la figura dell'amata donna Praga. Ci sono molti fiori, baci, gesti quotidiani, sfioramenti, luci e fiocchi di neve; il curatore della raccolta einaudiana, Sergio Corduas, la definisce "anti-Praga" nell'introduzione, con gesto provocatorio verso gli schemi di molte letture affrettate dell'umor Vltavino, provocatorio se è vero che l'immagine della capitale (città d'oro, mercurio BibliotecaGino Bianco e piombo) sedimentata nei suoi abitanti è più simile a questa donna seifertiana che non, per dirne una, al labirinto del mondo di Comenio. C'è nella metafora che Seifert impiega per descrivere Praga un residuo dell'idea poetista secondo cui la poesia è affare per tutti i sensi; ma questo significa ricchezza, non semplificazione; ancora una volta è affare del lettore addentrarsi nella ragnatela polisemica dell'espressione di Seifert, nella profondità paurosa di parole apparentemente semplici, apparentemente dolci, dal fondo delle quali urlano tutte le ferite della storia, della lingua della gente di Praga, insieme al pensiero della morte, alla memoria dolorosa, il tutto composto in un'imprevedibile armonia in cui il verso più problematico risplende di una bellezza classica che non solo elude ma sintetizza, al termine di un'operazione consapevole e faticosa, le antitetiche correnti sotterranee della sostanza praghese e di un secolo che Sei fert ha frequentato per intero senza mai nascondersi. L'antologia di Einaudi getta finalmente qualche luce sulla lunga strada percorsa dalla lingua ceca nelle molte vesti della poesia di Seifert; il testo a fronte consente di gettare un'occhiata alla complessità metrica e architettonica di molte soluzioni; utile e piacevolmente tendenziosa è l'introduzione di Sergio Corduas, oggi fosse il maggior conoscitore di cose ceche, morave è slovacche (eh ma che fatica per non dire "boemista"!) in Italia. Due soli rimpianti: il poco spazio dedicato all'avventura del poetismo, ancora misconosciuta e fraintesa persino da esperti, e gli inspiegabili tagli (una nota sibillina sullo spazio tiranno sembra escludere responsabilità di Corduas) inferti proprio al poema più famoso, Vestila di luce. DACRITICOA POETA Nuccia Ordine Con la recente raccolta Versi e versioni (Il Girasole edizioni, Valverde), Carlo Muscetta riconferma il suo rapporto privilegiato con la poesia. Da oltre cinquant'anni, infatti, le figure del critico e del traduttore si intrecciano in una febbrile attività di ricerca: dal voluminoso Parnaso italiano di Einaudi agli studi su Leopardi e Belli, dalla traduzione delle Fleurs du Mal di Baudelaire (Laterza) ai saggi su alcuni poeti del Novecento (Saba, Gatto, Scotellaro). La plaque//e, per come si evince dal bisticcio contenuto nel titolo, è divisa in· due sezioni: nella prima trovano posto i "versi", mentre la seconda ospita le traduzioni ("versioni"). I "versi" costituiscono, senza dubbio, un elemento di novità: è la prima volta, infatti, che Muscetta dà alle stampe alcuni componimenti, ispirati, quasi tutti, a fatti e a circostanze occasionali. Non si tratta di poesie legate esclusivamente alla satira politica o al dibattito culturale (come è accaduto in appendice agli Eredi di Protopopov del'77, con i versi Contro Pier Paolo Pasolini o In morte di Mario Alicata): questa volta siamo di fronte ad una realtà che evoca un percorso più intimo, dominato essenzialmente dalle passioni d'amore. E qui il termine "amore" assume una connotazione molto ampia; si dilata fino a fagocitare le più diverse esperienze di coinvolgimento emotivo: dall'amore per la sua compagna (non a caso la raccolta si apre con i versi dedicati A Marcella) all'amore per la Sicilia (Primavera etnea e Sicilitudine testimoniano l'intenso rapporto di Muscetta con una terra dove ha insegnato e vissuto per molti anni), dall'amore per la madre all'amore per la natura. Ma nonostante l'occasionalità, i diversi piani tematici non formano isolati compartimenti stagni. Quasi tutte le quattordici poesie (scritte nell'arco di vent'anni, dal'66 all'86) sembrano evocarsi a vicenda, come in un bizzarro gioco di specchi. Tra i colori domina l'azzurro: quello degli occhi (Tu chiami Mao, la dolcissima lince) si sposa felicemente col "nastro azzurro" del mare e del cielo (A Marcella). Tra gli odori imperversa la zàgara, ora per "accendere" l'olfatto (''estenua l'incandescenza/fino al profumo, la zàgara", Calendimaggio 1983), ora per "occultare" il marciume di una realtà difficile e contradditoria ("Qui brulicano vermi di grassura / qui si vive stregati dalla zagara / qui d'ingiustizia si crepa'', Sicilitudine). Spesso le immagini evocate si fondono fino a sfociare nella sinestesia: "Rossi gialli viola verde miele/ qui marciscono i sogni,/ bucce d'agrumi e di spinosi fichidindia" (Sicilitudine). Qui e là, anche nei momenti di riflessione più intima, si avverte comunque l'eco di una voce ancora capace di sussurrare parole di sostegno o di sdegno; una voce che non erompe nel ritmo martellante della polemica (di cui Muscetta più volte si è avvalso altrove), ma che si appropria di un tono dimesso, in perfetta armonia con un contesto più pacato. L'autore non rinuncia al suo impegno politico e culturale, alla sua vocazione a navigare controcorrente. E per sottolineare con forza questa sua posizione, Muscetta colloca al centro della sezione dedicata ai "versi" l'unica poesia in cui il ri-

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