Linea d'ombra - anno V - n. 18 - maggio 1987

"10"SI RACCONTA Bruno Pischedda Colmo di suggestive analisi testuali, particolarmente apprezzabili nei capitoli dedicati a Sartre e a Rousseau, Il patto autobiografico di Philippe Lejeune (trad. it. Franca Santini, Il Mulino pp. 416 L. 38.000) si caratterizza tuttavia anche per un~ latente contraddittorietà teorica. Una sorta di incongruenza dell'impianto discorsivo di fondo, individuabile in prima istanza nello scarto tra dati teorici considerati dall'autore ormai acquisiti e aperture analitiche che ne intaccano il rigore argomentativo. Ciò balza in evidenza soprattutto nell'ultima sezione del volume, Autobiografia e storia letteraria. Qui, sulla base della nozione jaussiana di "orizzonte di attesa", lo studioso francese imposta i lineamenti delle sue future ricerche intorno al genere in oggetto. Si tratta di un sistematico disegno di ricognizione, e di successiva comparizione, tra due "tagli sincronici", inerenti due differenti bienni di produzione autobiografica francese e di relativa pubblicistica critica, posti a distanza di alcuni decenni l'uno dall'altro. Un lavoro siffatto renderebbe possibile il concreto accertamento dei movimenti contenutistici e formali interni al genere. Ma consentirebbe altresì il rilevamento della sua specifica posizione rispetto ai generi circonvicini, che lo delimitano, tipologicamente e gerarchicamente, nel complesso del sistema letterario. Solo così - ammette Lejeune - si potrà pervenire a un quadro storicamente credibile dell'autobiografia, essendo la sua storia "prima di tutto quella del suo modo ·di lettura". No è il caso, d'altra parte, di mettere in dubbio la serietà di un tale programma di lavoro. Da molti anni ormai, oltre quindici, l'autore si dedica con appassionata metodicità all'autobiografia. Testimonianza ne è .la fitta bibliografia critica che gli è attribuibile; fra i cui titoli andranno segnalati almeno L 'autobiographie en France (1971), Je esi un autre (1980) e il più recente Moi aussi (1986). Senonché, posto in tal modo al centro delle considerazioni teoriche il divenire del genere, nei suoi momenti di "relatività e variabilità", sorge inevitabilmente il problema della definizione. Di ciò si occupa, pur con lodevole chiarezza terminologica e sintetica, il primo capitolo del libro. Sarà dunque autobiografia, secondo Lejeune, quel "racconto retrospettivo in prosa che una persona reale fa della propria esistenza, quando mette l'accento sulla sua vita individuale, in particolare sulla teoria della sua personalità." Al di là dei riferimenti alla forma del linguaggio (prosa), alla sua strutturazione in racconto retrospettivo e al suo contenuto globale (storia di una vita, genesi di una personalità), Lejeune insiste poi accuratamente sulla "situazione dell'autore" e sulla "posizione del narratore" all'interno del testo. Affinché vi sia autobiografia, è necessario che il rapporto tra l'autore reale e le sue reduplicazioni testuali di narratore e personaggio si configuri secondo una stretta "identità". Tale coincidenza assoluta dovrà altresì essere materialmente comprovata, agli occhi del lettore, da quella specifica certificazione che risiede nel nome proprio di persona. È esattamente questa specifica attestazione (nome dell'autore reale uguale al nome del narratore e del personaggio) che dà luogo al "pàtto" di lettura, e che caratterizza l'autobiografia come genere fortemente "contrattuale". Ma - rincara Lejeune a scanso di equivoci - una "identità è o non è", per conseguenza "l'autobiografia non ammette gradi: è tutto o niente". Se le cose stanno così, non si può dire di avere in mano una polizza con molte possibilità di deroga. Viene pertanto da domandarsi come potrà rendersi proficua una tanto rigida delimitazione di campo, all'interno di Jean Paul Sartre (foto di Cartier Bresson/Magnum 1946) ibliotecaGino Bianco SAGGI/PISCHEDDA una considerazione del genere autobiografico nel senso di una sua concreta mobilità storica. Sotto questo profilo, il testo di Lejeune denuncia forse la sua composizione cronologicamente diversificata: i vari capitoli di cui è costituito, e particolarmente quelli di indole più teorica, palesano cioè un nonografismo che li rende per molti versi impermeabili. Cosicché se il primo studia il genere formalizzandone le invarianti, l'ultimo lo affronta nel suo concreto divenire: ma i risultati dell'uno solo parzialmente risultano integrabili con le problematiche aperte dall'altro. In tutto questo si può avvertire tuttavia una ben più rilevante mancanza di tematizzazione teorica. Il critico dei generi, tanto più se intende portare la sua attenzione sul versante della ricezione letteraria, non può fare a meno di riformulare globalmente le questioni inerenti la definizione. Accettato infatti questo arduo piano di analisi, è necessario riconvertire la nostalgia per rigide codificazioni normative, o se si vuole per rigorose formalizzazioni descrittive, in una meno riposante immagine del genere, ,caratterizzata da una netta apertura funzionalistica e dinamica. E ciò proprio in riguardo alla mobilità storico-percettiva in cui si collocano quei differenti atti di lettura che (sul doppio piano di una medietà e di una singolarità ben lungi dall'essere adeguatamente indagate a tutt'oggi), realizzano socialmente, valorizzano e riconoscono un testo nel suo eventuale autobiografismo. Si narra che quando uscì Martin Eden, il giornalista Nathan L. Greist, facilmente riconosciutosi nel personaggio dell'intellettuale Kreist, ebbe modo di esternare pubblicamente le sue rimostranze. Nel romanzo Kreist chiede a Eden dei soldi, mentre in realtà fu Greist a non provare il piacer di vederseli restituire da London. Che degli scrittori ci fosse da diffidare, ci era noto. Già Sherwood Anderson, autore di Storia di me e dei miei racconti, aveva ammonito piuttosto seccamente i propri amici, che non sempre piacevolmente si ritrovavano sotto forma di personaggi: "Se non volete comparire nei miei libri, statemi alla larga!". Più utile il nostro discorso potrebbe altresì risultare il caso del romanzo dannunziano Il fuoco. Una parte non trascurabile della sua fama è attribuibile al diffuso riconoscimento, operato dal pubblico dei lettori coevi anche al di là delle certificazioni nominali, del fatto che sotto le spoglie di Stelio Effrena e di Perdita, si celavano lo stesso D' Annunzio e la non più giovanissima Eleonora Duse, nel loro conturbante rapporto d'amore. E non è peraltro da revocare in dubbio la a;

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