prattutto in Francia), una sorprendente "capacità di essere a proprio agio con il corpo". A questo proposito va almeno ricordato un testo anteriore all'opera di Gay, e qui neanche citato: Gli altri vittoriani di Steven Marcus (Savelli, 1980). Lo studio di Marcus si muoveva però in un'ottica un po' convenzionale di "smascheramento" del moralismo vittoriano e della sua anima perversa, di pura contrapposizione tra facciata benpensante e segrete ossessioni pornografiche. A Gay si potrebbe obiettare che non tutti gli esponenti delle classi medie erano capaci di una così funambolica arte del compromesso, che di fronte a una Mabel Todd "appagata" vi era una realtà diffusa fatta di conflitti drammatici, di scissioni laceranti, ecc. Ora, bisogna riconoscere che lo storico americano non manca di segnalare i "prezzi" di tutta questa luminosa modificazione del costume. In particolare nel ritratto della figlia di Mabel, Millicent Todd (con le sue ossessioni e depressioni) e della scrittrice svedese Victoria Benedictsson, che dopo un matrimonio infelice e una successiva unione tormentata, finì suicida nel 1888, per non avere mai accettato, scrive Gay, il proprio sesso. Ma quanto pesano questi due destini nell'economia del libro e nella visione di Gay, nella sua "gaia scienza" dell'esperienza borghese? Anche se il quadro delineato dallo storico non è privo di chiaroscuri e sfumature, la curvatura del suo discorso appare polemicamente ben orientata. Il libro di Gay si inscrive a pieno titolo in una tendenza, oggi assai diffusa, a una seria rivalutazione della cultura e della società borghese (o della Modernità); una società difesa non con i tradizionali argomenti conservatori (in quanto, per esempio, capace di garantire un "ordine"), ma per la sua estrema flessibilità, per lo spazio che riesce comunque a dare alla verità delle passioni, al dispiegarsi dei conflitti (cfr. recentemente i saggi, pur diversissimi tra loro, di Franco Moretti e di Marshall Berman). Questa tendenza merita alcune considerazioni. Può essere salutare una reazione a tante liquidazioni frettolose che hanno caratterizzato lo scorso decennio, una critica puntuale a tante utopie organicistiche, ma ho l'impressione che la fiera laicità di questo filone presenti qualche "troppo umana" smagliatura. In fondo il presente non è granché. Il futuro è nebuloso se non terrificante. E allora al nostro bisogno di un minimum utopico non rimane che rivolgersi a un passato nemmeno troppo remoto. Ora, la distanza tra quel passato e questo presente, tra la borghesia ottocentesca e la attuale pervasiva middle class, appare incolmabile. Eppure questo presente è anche un prodotto di quel passato. L'ottocento che ci presenta invece lo storico americano non ha un prima né un dopo. È come incorniciato, irrelato. Probabilmente lo stesso delicato equilibrio tra ipocrisia e sincerità, tra reticenza pubblica e spregiudicatezza privata è oggi compromesso, per molteplici ragioni (la spregiudicatezza si esibisce, il pudore è divenuto superfluo, ecc.). Ma soprattutto direi che all'antico sistema di divieti e di proibizioni (più o meno aggirabili) tende a sostituirsi un più insinuante sistema di obblighi impliciti e di esclusioni. La ricerca di Gay si ferma alle soglie della contemporaneità, però sappiamo che quei meccanismi erano operanti già nel secolo d'oro della borghesia (ed ignorare completamente i recenti studi in proposito mi sembra colpevole). Diamo atto a Gay di aver problematizzato, e sottratto al giudizio morale, un concetto così ambiguo come quello di ipocrisia, in un periodo segnato dal pathos ingenuo (e spesso ipocrita) della sincerità. Ma l'insieme della sua indagine solleva de- &li interrogativi di fondo. E stato osservato da Larry Nachmann sulla rivista americana "Salmagundi" (n. 66, 1985) che i personaggi, pur reali, che si muovono in questo libro, non hanno mai la profondità e lo spessore di un papà Goriot o di una Hélène Bezuchova. Ma non si tratta solo di profondità e spessore. Gay indica, tra i requisiti richiesti per un 'impresa del genere, abitudine alla ricerca, intelligenza ben addestrata e anche "una grande partecipazione". Bene, ma chi potrà dare la parola a quanti non hanno nemmeno tenuto un diario? A quanti non hanno nemmeno scritto una pagina di autobiografia né altro? In che modo si può "partecipare" alle loro esistenze invisibili? E naturalmente non si tratta solo dei ceti subalterni. Vi sono fantasie inconsce, emozioni e sofferenze prive di manifestazioni scritte. Non si materializzano. Non sono documentabili. Chi può rappresentarle o immaginarle se non la mente visionaria di un romanziere, il suo sguardo soggettivo e perciò più "scientifico" di un nudo referto medico? Qualche volta la letteratura ha saputo iHuminare la parte muta, sommersa dell'esperienza. Per rendere conto di questa parte Gay avrebbe forse dovuto inoltrarsi più a fondo nell'universo del grande romanzo ottocentesco, ascoltare con più pazienza la moltitudine di voci che si levano dal suo interno. BibliotecaGino Bianco SAGGI/PICCIOLI UN TESTOE IL SUOSENSO Gianandrea Piccioli La "Calandria" alla corte di Urbino recita il sottotitolo di Commedia efesta nel Rinascimento di Franco Ruffini (Il Mulino, pp. 376, L. 34.000), con riferimento al tema immediato del libro: la prima rappresentazione, il 6 febbraio 1513, al Palazzo Ducale di Urbino, della commedia di Bernardo Dovizi da Bibbiena, con la "regia" e gli intermezzi di Baldassar Castiglione e la scena prospettica attribuita a Girolamo Genga. La specificità dell'oggetto di indagine, su cui l'autore lavora da almeno dieci anni, può sembrare addirittura provocatoria per lettori che non siano professionalmente interessati alla storia del teatro. E ancor di più per quelli di "Linea d'ombra", rivista se non di tendenza certo direttamente engagée nel con temporaneo e con intenzioni programmaticamente "pedagogiche". Ma proprio per questo sembra giusto segnalare qui uno studio che esce dall'ambito ristretto della ricerca accademica e innesca una serie di problemi ben più ampiamente coinvolgenti. Ché in queste pagine non solo si legge, dietro l'indagine su un evento spettacolare del passato, una costante attenzione alle difficoltà teoriche e alla prassi dei teatri di oggi, ma si tratta più generalmente di progetto culturale e di responsabilità storiografica, di certezza filologica e di persuasività ermeneutica. In una parola del senso, nelle sue varie accezioni, morali e conoscitive: il senso della ricerca storica (e relativa etica del ricercatore) innanzi tutto, ma anche il senso dei testi (o delle fonti) esaminati e il senso complessivo di un contesto culturale. E proprio qui, prima ancora che negli esiti - importantissimi - in sede di storiografia teatrale, è facile individuare l'esemplarità dello studio di Ruffini: egli tiene infatti, con lucidità quasi paranoica, le fila di un itinerario che dai dati testuali, considerati come significanti, risale, attraverso avventurosi e insieme controllatissimi percorsi, al contesto più ricco in cui quei significanti, spesso eterogenei, si schiudono a un significato unitario, e producono una nuova comprensione della realtà esaminata. E quando si torna al dato di partenza ci sembrano pacifici e quasi ovvi il ribaltamento o l'esclusione degli schemi consolidati entro cui la storiografia tradizionale l'aveva collocato e interpretato. Merito anche della scrittura, sempre affilata e nitida, e della sapienza combinatoria con cui il libro è costruito. Un capitolo come quello dedicato all'analisi letteraria e 83
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