L'APPLAUSO Marina Mizzau Dal tempo lontano della sua prolusione accademica il professore, al termine della lezione, veniva applaudito. Ogni volta, dopo aver concluso il suo discorso, il professore attendeva e riceveva l'applauso. Davano il via gli allievi-assistenti, sempre presenti alle sue lezioni, e gli studenti seguivano. Il professore non avrebbe potuto neanche immaginare una lezione conclusa senza applauso, e i suoi allievi non avrebbero mai pensato di disattendere questo suo desiderio. Più che un desiderio era una necessità, un prolungamento inevitabile delle sue parole, senza il quale queste sarebbero rimaste a brancolare nel vuoto come mani tese a stringerne altre che ad esse distrattamente si sottraggono. Nell'infanzia del professore la frase "essere applaudito" si era impressa nella sua corposa letteralità: non metafora di successo, l'applauso era la forma unica, imprescindibile del successo, e questa forma materiale non poteva essere sostituita da altre forme di significato affine. L'applauso era più che segno di successo, era il successo, un successo che doveva rinnovarsi ogni volta in una modalità sempre uguale a se stessa, e perciò rassicurante. Ma venne un momento - si era verso la fine degli anni '60 - in cui gli studenti smisero di accodarsi all'applauso. Questo inspiegabile cambiamento rattristò il professore. Restavano comunque i vecchi allievi plaudenti, i quali, pur non osando rinunciare all'abitudine, si sentivano però sempre più a disagio nel dar luogo a quella forma di tributo che ai giovani indubbiamente suonava come piaggeria. "Dobbiamo parlargliene" diceva uno degli allievi. "Smettiamo senza dirgli niente; capirà" proponeva un altro. "Smettere improvvisamente è impossibile, penserà che siamo impazziti. Proviamo a calare gradatamente". "Meglio che pensi che siamo impazziti piuttosto che sospetti, dal calo progressivo degli appluasi nostri, aggiunto alla defezione degli studenti, di essere lui in declino". "Gli diremo semplicemente che non si usa più". "Ci dirà che lui è un uomo all'antica e tiene alla vecchie usanze". "Questo non lo capirebbe mai. Meglio dirgli addirittura che adesso è proibito". "Figuriamoci se ci crede ... " Finirono per dividersi in due gruppi, chi pensava che fosse il caso di continuare ad applaudire l'avrebbe fatto, gli altri si sarebbero astenuti. Ma poi questi ultimi si resero conto che era assurdo apparire come minoranza dissidente. Tornarono allora a discutere e finirono per concordare un programma comune. li progetto era quello di simbolizzare il gesto già di per sè simbolico, di togliergli il suo aspetto rituale esasperandone la ritualità, sperando di coinvolgere in questo gioco da una parte gli studenti e dall'altra il professore stesso. Adesso, quando il professore concludeva la sua lezione con BibliotecaGino Bianco STORIE/MIZZAU quel sorriso che chiamava l'applauso, i vecchi allievi si cimentavano in complicate manovre che sembravano concedere e negare assieme. Chi eseguiva un applausetto velocissimo, sia per la durata assoluta, sia per il tempo contratto in cui le mani venivano separate e congiunte, a volte senza arrivare neppure a sfiorarsi, a volte quasi senza separarsi, e allora l'applauso si riduceva a una vibrazione convulsa delle mani unite, e ognuna di queste varianti veniva accompagnata da un frenetico gesto assertorio del capo, come a dire "fatto", il tutto molto simile a un leggero attacco di convulsioni. Chi invece le mani le muoveva lentamente, distanziate, senza congiungerle; chi il gesto d'applauso lo accennava con le braccia sollevate e le mani in alto, il viso atteggiato ad allegra euforia; chi infine, pensando di potere arrivare più velocemente al risultato pedagogico, si scatenava in un applauso frenetico, rumoroso e lunghissimo, accompagnato da tutte le espressioni facciali dell'entusiasmo incondizionato. Gesto che fu decisamente equivocato. Come poteva il professore distinguere un entusiastico applauso finto da un entusiastico applauso vero? Come poteva un cambiamento quantitativo, addirittura un'inversione di senso, agli occhi di chi, considerando quel gesto naturale e dovuto, poteva solo rallegrarsi che aumentasse di intensità? E anche le altre tecniche non ebbero maggior successo; quelli che applaudivano solo mimando il gesto, accorciandolo allargandolo, venivano dal professore sollecitati a sguardi e a sorrisi: su, coraggio, applaudite, perché tanta timidezza? E poi c'era l'altro aspetto del problema. Quelle virgolette che incorniciavano l'applauso, invisibili al professore, potevano essere viste dagli studenti e quindi costituire un tramite di intesa con loro. Ma avrebbero questi potuto comprendere il senso di una ironica, sì, ma benevola, affettuosa presa di distanza, o non avrebbero invece conferito ad essa un significato di irrisione malevola, di presa in giro volgare e grossolana? Non vi avrebbero visto, gli studenti, un invito a una connivenza beffarda alle spalle del professore? Questo, i discepoli non potevano accettarlo, non era leale; finirono quindi col rinunciare alle loro manovre e ripresero ad applaudire seriamente. Mentre il secondo applauso si differenziava dal primo per l'ammiccamento gioioso con cui il gesto veniva separato dalle sue intenzioni, questo terzo applauso, distinguendosi pure dal secondo per la rinnovata serietà di intenti, si differenziava a sua volta dal primo per la cupezza rassegnata, per la plumbea determinazione con cui il lavoro veniva eseguito. Era, questo terzo applauso, frettoloso e austero, ridotto all'essenziale, senza variazioni, senza fantasia e senza gioia, uguale per tutti, monotono: se, come il precedente, tendeva ad evidenziare il suo aspetto rituale, tuttavia più che rito giocoso appariva costrizione triste. Era un applauso sottomesso e pavido, nel quale però, forse per rivalsa verso il dovere di sottomissione, gli allievi finivano per concedersi ciò da cui, per lealtà nei confronti del professore, si erano precedentemente astenuti: occhiate furtive in giro, a volte accompagnate da deboli sorrisi, con le quali tentavano clandestinamente - come di nascosto l'uno dall'altro - un ponte collusivo con gli studenti, come a dire: cosa ci 67
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