ITINERARIOVERSOIL BASSO Luca Pagni (Lodi) Le calde notti di New York possono riservare, nel film di Martin Scorsese Fuori orario, una serie incredibile di sorprese. Si comincia con la situazione che potrebbe affascinare maggiormente l'ingenuo: nella solitudine di un bar, una ragazza bionda e splendida vi rivolge la parola e con una scusa vi rifila il suo numero di telefono. Il seguito di ciò che potrebbe essere una collaudata storia, più di sesso che d'amore, si rivela invece una marcia forzata in più gironi infernali: un incubo popolato da streghe (e non per niente sono le figure di donne il centro ed il motore del film). Scorsese senza alcun intento moralistico (il finale è piuttosto tragicomico e quel rondò, quello splendido girotondo finale con la macchina da presa lo sottolinea: con ironia la salvezza è indicata nel posto di lavoro e non certo nei bagordi notturni) si rivela un perfetto regista metropolitano che con pochissimi mezzi sa mettere in scena una commedia che si tinge sempre più di tinte fosche. Il protagonista sta leggendo un romanzo di Henry Miller, scrittore per definizione sconcio e sensuale e viene abbordato da una ragazza. Lui è un impiegato, lavora sui computer, abita da solo, particolari _che possono voler dire che avventure di tal genere al nostro non capitano spesso. Anche se è vero che il film è disseminato di particolari che potrebbero spiegare ma non vogliono. Dimenticando che parte del nostro destino è segnato dalle nostre azioni, il destino di Griffin Dunne è segnato dallo svolazzare di una banconota da venti dollari che Scorsese segue con la cinepresa fino a quando non cade sul marciapiede. L'imbranataggine diventa impaccio quando si tratta di affrontare Rosanne Arquette, la prima di una serie di figure femminili nevrotiche, sole, molto decise in tutto ciò che fanno. Dal suicidio alla caccia all'uomo, dall'amore fisico ai giochini sado-maso, non perdono tempo, e gli uomini si rivelano incerti e goffi, in preda al loro movimento. Griffin Dunne si spaventa, ed è umanamente comprensibile. Ma invece di salvarsi con l'ironia, esorcizzando le sue paure, riversa il suo malessere sugli altri, peggiorando sempre più la situazione. Incubo kafkiano? L'~ggettivo è ormai d'uso corrente e può essere associato alle disavventure del protagonista, uomo normale in situazioni straordinarie come è d'uso in buona parte del cinema americano degli ultimi anni. Solo che in Kafka la situazione è senza uscita fin dall'inizio (Gregor Samsa è un insetto già nel primo capoverso del racconto); e qui siamo di fronte a un itinerario verso il basso. Scorsese gioca molto e si diverte. Gioca con la sua misoginia e con le sue nevrosi, con un copione che trasforma una farsa degli errori e degli incastri in un pericolo mortale; si diverte a creare un gioco di scatole cinesi in cui nessuno capisce nessuno e tutti sono terribilmente soli. Attua una smitizzazione della metropoli sempre in movimento, dove divertimento e avventura sono assicurati a qualsiasi ora del giorno. È l'altra faccia della Manhattan di Woody Allen. È un gioco ma non troppo: e Scorsese guida il. film sui suoi binari preferiti, e ce lo ricorda inserendo se stesso, come comparsa, nella prima scena della discoteca. Fuori orario è aria fresca per il cinema americano: troppi mostriciattoli, alieni e adolescenti, hanno infatti saturato il nostro immaginario. 7000 GIORNIIN SIBERIA Valter Vece/fio (Roma) Giugno 1956: un treno speciale corre lungo la linea che unisce Mosca a Kiev. In uno degli scompartimenti Kruscev e Tito, accompagnati dai loro capi di gabinetto, sono impegnati in una conversazione fitta ed animata. I due leader stanno cercando di appianare le numerose divergenze ideologiche accumulate durante lo "scisma" jugoslavo. Ad un certo punto, Tito allunga a Kruscev un foglietto: "È la lista dei nostri I 13 ex funzionari che erano in URSS. Che ne è di loro?" Kruscev guarda, riflette, infine dice: "Tra due giorni ti farò sapere". Puntuale, due giorni dopo Kruscev sibila a Tito tre sole parole: "Totchno sto nietou" ("Cento non sono più di questo mondo"). E gli altri tredici? Il Kgb si mette immediatamente in moto. Di quei poveri sopravvissuti sembra essersi persa ogni traccia: una volta spediti ai gulag siberiani, nessuno si è più curato di loro: cifre, segni sui polverosi registri della burocrazia poliziesca. Tra quei tredici "desaparecidos", c'era anche Karlo Stainer, che alla fine viene rintracciato nella lontana città di Krasnojarsk. Ha scontato vent'anni di carcere e di "campo" in Siberia. Poi è stato condannato al "confino a vita" in quella sperduta citta. Stainer, come tanti altri sventurati finiti nei gulag al tempo di Stalin, aveva ben poco di cui rimproverarsi. Figlio di gente modesta per non dire povera, era nato in Austria. Dopo la prima guerra mondiale, aveva aderito alla gioventù comunista. Negli anni venti si era trasferito in Jugoslavia. A Zagabria era diventato l'animatore di una tipografia che stampava edizioni clandestine del partito. Perseguitato, si rifugia a Parigi e a Vienna. Lavora al Komintern a Berlino. Infine, nel 1932, il PC jugoslavo lo manda a Mosca, dove diventa direttore della tipografia della casa editrice dell'Internazionale comunista. Quattro anni dopo lo arrestano. Ed ha inizio il lungo viaggio nell'inferno del gulag. Fino a quando Tito non chiederà a Kruscev che fine hanno fatto i tanti compagni jugoslavi ingoiati nel deserto ghiacciato del Grande Nord Siberiano. "Nelle galere della N.K. V.D., nel gulag", dirà più tardi Stainer, "ovunque la mia sofferenza ha superato i limiti di ciò che è sopportabile, ma un'idea fissa non mi ha mai abbandonato: sopravvivere, per raccontare al mondo e agli amici del Partito la mia terribile esperienza". È così che, due anni dopo la sua liberazione, Stainer comincia a BibliotecaGino Bianco scrivere le sue memorie (7000 gior:ni in Siberia, Pironti, pp. 354, L. 18.000), a raccontare la sua odissea. "Un libro che non è altro che una testimonianza parziale" spiega Stainer. "Per raccontare t-utto ciò che ho vissuto durante quei vent'anni (e con.me migliaia di altre vittime), sarebbe stata necessaria una memoria sovraumana, e avrei dovuto scrivere decine di volumi". Oggi Stainer ha 85 anni, vive in Jugoslavia con Sonia, la sua moglie russa. Nonostante tutto quello che ha passato, le persecuzioni che ha patito, i vent'anni di carcerazione, è rimasto comunista. "Sono comunista jugoslavo", dice. "Nonostante sappia che gente indegna come quella che mi ha perseguitato viva ancora, non esco dal partito a causa loro. Il PC jugoslavo, poi, mi ha salvato". Dopo essere stato scarcerato; Stainer è stato anche "riabilitato". Lui dice: "I sovietici sono persone semplici. Con un pezzo di · carta pensano di poter cancellare vent'anni trascorsi in prigione, o di potersi discolpare per aver incarcerato un innocente. Quel pezzo di carta, secondo loro, annullerebbe la mia condanna, e mi restituirebbe i miei diritti". Se chiedete a Stainer se pensa che esista tra Marx e il gulag tina qualche relazione, lui vi risponderà sicuro: "Si, vedo una relazione. Se Marx fosse vivo, l'avrebbero rinchiuso anche lui nel gulag ... Nel migliore dei casi". 61
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