B sabbia e pietre tipico della provincia orientale del Capo. Lo stesso karoo che compare nei romanzi di John Coetzee; quello in cui vaga Michael K, in cui monologa Magda, in cui si inferocisce Jacobus Coetzee di Dusklands. La presenza del paesaggio è essenziale alla nostra narrativa, e sottolinea la solitudine del protagonista, quella stessa solitudine che caratterizza Lyndall nel romanzo della Schreiner, oppure il protagonista Mehring in The Conservationist di Nadine Gordimer: un libro in cui Nadine ci ha detto che aveva deciso di restare. Sì, perché i suoi libri precedenti sono tutti scritti attraverso l'ottica di qualcuno che si trova in Sudafrica come fosse un ospite: solo da Mehring in poi i suoi eroi sono qui per restare - ed anche per morire - in questa terra arida e sabbiosa. È un paesaggio coloniale, perché è una situazione coloniale. Peter, però i tuoi raccon1i di distinguono in questo senso: in essi non c'è un paesaggio realistico, bensì un panorama interiore, costruito geometricamente, prismatico. Sì, come accade per le baracche di Al the End of the War: il cono del soffitto, il tracciato reticolare del pavimento di pietra, le strisce di canne che formano le pareti, e il mare. Talvolta la 1ecnicaè più iperrealisticache altro. Ma, dimmi, come organizzi i tuoi racconti? Come nasce la struttura narrariva? Ogni volta è diverso. Ma prendiamo un esempio. lo in fondo sono uno scrittore realista: o almeno tale mi definirei. Ma essere realista non equivale a dire che io sia uno che se potesse non butterebbe all'aria questa società. Un mio racconto, che è diventato molto popolare ed è comparso in numerose antologie, si intitola Pyro Protram. È quasi fantascientifico. Comincia così: "L'ultimo uomo rimasto al mondo, Pyro Protram, uscì dal mare e si arrampicò sui ripidi gradini, bianchi come ossa calcinate, dell'albergo in rovina. In spalla aveva un fucile automatico di fabbricazione americana, e delle munizioni ... " Cos'era successo? Una notte avevo fatto un sogno e svegliandomi m'era rimasto in mente questo nome - Pyro Potram - che non mi sapevo spiegare. Era un personaggio: ma quale? chi? Il nome era insolito; non era neppure un nome, era una stranezza. Ebbene, qualche tempo prima era successo un incidente all'ambasciata israeliana a Johannesburg, proprio accanto al mio giornale: un pazzo di nome Protram, si era asserragliato nei locali dell'ambasciata, e c'era stata una lunga sparatoria. lo avevo sentito le raffiche per tutto il pomeriggio. Quindi Protram era collegato a quell'incidente: un bianco, pazzo. Ma il sogno, drammaticamente, aveva aggiunto Pyro. Mi resi conto allora che Pyro Protram era l'ultimo uomo rimasto al mondo, e così trovai l'incipit del mio racconto: "L'ultimo uomo rimasto al mondo uscì dal mare". E questo era tutto. Sapevo che il personaggio era diretto verso un albergo. Non sapevo però chi fosse. Poi mi capitò di trovarmi sulla costa dell'Oceano InBibliotecaGino Bianco diano, delle parti di Durban. Camminavo sulla spiaggia: e vidi che era la stessa spiaggia attraversata da Pyro Protram. C'erano molto grossi granchi dalle chele ossificate. Lì, nel giro di una settimana, misi insieme il racconto e lo scrissi. E così seppi che Pyro Protram rappresenta la psiche del maschio sudafricano impazzito; mentre lo sviluppo del racconto aveva radici in un sogno, ma anche nella realtà di un episodio di folle violenza. Il sogno di quell'uomo morente era minacciato da forze oscure. Così nacque quel particolare racconto. Quesr'impressione di morie e di folle disperazione è spesso presen1e nelle tue storie; e insieme c'è anche uno humour parricolare, auroironico. Vedi, io uso la tecnica della fantascienza, ma non per fare della fantascienza. Per me essa è un metodo per investigare la solitudine, poiché penso che la solitudine sia una tipica condizione sudafricana, e possa assumere varie forme. lo voglio andare oltre, voglio scoprire come gli uomini potrebbero cessare di sentirsi soli, come potrebbero comunicare, bianchi e neri, uomini e donne. Penso che l'apartheid sia una sorta di malattia: il paese è malato, e quel che bisogna avviare è un processo di guarigione. Per guarire però bisogna prima diagnosticare con precisione il male: ebbene, nelle mie storie io cerco di fare proprio questo. Cerco di calarmi nell'essenza della situazione. Ecco perché scelgo delle situazioni estreme (o forse sono loro a scegliere me). Voglio sapere quale è l'essenza della situazione, e come si può uscirne: si può uscirne? Quali valori rimangono? E allora scrivo. At rheEnd of rhe War mi è costato un enorme sforzo psichico, per questo motivo, per la ricerca che esso ha implicato: una ricerca metafisica. EDITORIA LIBRIPERCAPIREL'AFRICA Fabio Gambaro In Italia, l'interesse per la storia e la cultura africana è sempre stato assai scarso; per molto tempo, al continente nero si è pensato come ad un territorio da conquistare e dominare, alimentando ora improbabili sogni coloniali ora esercizi d'esotismo avventuroso e retorico, in ogni caso mai riconoscendo e accettando la realtà specifica di un modo totalmente altro rispetto alle coordinate e alla visione del mondo occidentali. Anche in periodi più recenti, quando ali' Africa non si è più guardato nei termini totalitari dell'imperialismo, ma si è preso atto del diritto all'indipendenza e all'esistenza dei popoli che vi risiedono, e insieme dei cambiamenti avvenuti in quelle società, qui da noi, a parte pochi specialisti, i più hanno continuato a considerare il continente africano come un rebus inspiegabile, un complesso mosaico di popoli misteriosi privi di storia e cultura che escono dall'anonimato - conquistandosi così uno spazio sulle pagine dei nostri quotidiani - solo in caso di guerre, carestie o altri episodi più o meno eccezionali. Proprio contro una simile mescolanza di ignoranza e luoghi comuni, la SEI ha avviato una collana di libri dedicata alla ·"Nuova Africa", nel tentativo di fornire gli strumenti necessari per un'informazione corretta sui processi di trasformazione in corso da cui, appunto, sta nascendo un'Africa "nuova"; si tratta di una terra certo percorsa da tensioni e contraddizioni, ma alla ricerca di nuove prospettive praticabili e reali, dopo "lo sconvolgimento, la destrutturazione dei modi di vita tradizionali, la spoliazione da parte degli europei". Ma l'intestazione della collana, diretta da Giuseppe Morosini, indica anche la volontà di guardare alla realtà africana rinunciando a ogni prospettiva eurocentriça, a ogni nostalgia coloniale e a ogni ambizione "bianca"; offrendo, invece, il panorama articolato di una civiltà ricca e variegata. Ciò significa, innanzitutto, far emergere proprio quella storia e quella cultura che i bianchi hanno sempre voluto cancellare e rimuovere, sia perché, come sempre, ciò che è diverso mette in crisi e provoca paura - è meglio quindi cancellarlo piuttosto che cercare di capirlo-, sia perché così è sempre stato più facile giustificare l'opera "civilizzatrice" dei dominatori bianchi. Questa doppia finalità della collana emerge con chiarezza dai due volumi che l'hanno inaugurata: la Storia dell'Africa di John D. Fage e l'Africa strangolaw di R. Dumont e M.F. M0ottin, pubblicati già da qualche tempo. Il primo dei due è opera di uno storico serio e rigoroso, coordinatore insieme a Oliver della Cambridge history of Africa, e da molti anni intento alla ricostruzi'one della storia africana. Fage ha provato a delineare la storia dell'Africa riconducendo i fatti e le vicende a dinamiche e a fattori interni, in modo da evitare - come è stato fatto sovente dalla storiografia occidentale - di ridurre la storia africana a semplice appendice della storia europea. Di ciò gli va dato merito, anche se - qualcuno ha sostenuto - si potrebbe fare meglio, come dimostrerebbe la Generai hislory of Africa patrocinata dall'UNESCO. In ogni caso, l'opera di Fage rimane un ottimo strumento per chi si avvicina alla storia del continente nèro, specie per ciò che riguarda i capitoli dedicati ai grandi imperi che hanno preceduto la colonizzazione europea e quelli che affrontano il triste periodo della tratta degli schiavi. Se un appunto va fatto a quest'opera, è a proposito della parte finale del volume, "L' Africa nel mondo moderno", dove alle vicende seguite alla decolonizzazione sono dedicate solo poche pagine, che certo non sono in grado di rendere compiutamente la complessità dei problemi che i paesi africani stanno affrontando in questi ultimi trent'anni. Tale prospettiva, invece, è adottata dall'opera di Dumont e Mottin, che affrontano in modo polemico e provocatorio la realtà amara dell'Africa contemporanea: le illusioni crollate, gli errori della classe dirigente, la miope e cinica politica dell'occidente, i molti problemi irrisolti, gli squilibri e le ingiustizie dei rapporti nord-sud. Già all-'ini-
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