CINEMA PROFESSIONISMO, MA NONBASTA Goffredo Fofi , , Il superiore professionismo di Ettore Scola e dei suoi collaboratori fa di La famiglia un frutto strano e fuori stagione del cinema italiano di questi anni. Si subisce per quanto renitenti il fascino di un "prodotto" di qualità, ed essendo per una volta la parola qualità del tutto adeguata, come non stupirsi che ancora sia possibile scrivere, qui da noi, una sceneggiatura come si deve, e si sappia sulla sua base recitare, superbamente a volte, ruoli non difficili ma precisi, e delicati da amalgamare e comunque di una loro (convenzionale) credibilità, da figurine ben ritagliate; e che ci siano scenografi arredatori e costumisti, fotografi e operatori, musicisti e montatori che, alla faccia; sappiano ancora far bene il loro mestiere? Il cinema italiano fa tutto più o meno senso; quello dei comici-puffi come quello "engagé", quello d'autore come quello dei cottimisti, quello dei vecchi come quello dei giovani, spesso ugualmente cinici e mediocri. E soprattutto, mai che vi si peschi quel minimo di riconoscibilità che ce lo renda vicino, e mai che sia - richiesta minima, quando non c'è la vitalità dell'arte a cui tutto si può perdonare - "ben fatto", cioè professionale. La famiglia è un film professionale, e il merito maggiore è indubbiamente di Scola, che non ha mai azzardato grandi messaggi e grandi ambizioni, ma che ha molti pregi: per esempio di conoscere le proprie possibilità e i propri limiti, di conoscere alla perfezione il proprio mestiere, di rispettare quello degli altri. Soprattutto in questo egli si dimostra qui un maestro: e Gassmann come Palmer, i Dapporto come le tre zitelle, la Piccolo come la Sandrelli come tutti gli altri (farei un'eccezione per la legnosissima Ardant, mentre l'altro ospite, Noiret, supera tutti con pochi secondi di caratterizzazione perfetta) gli sono debitori di una possibilità che il cinema italiano costantemente nega loro: quella di dimostrare di poter essere, in buone mani, ancora attori. La morale della storia conta a questo punto di meno, o non vale la pena di insistervi: La famiglia è "una" famiglia, quella picc9lo-medio borghese post-unitaria, e intellettual-progressista, che ha radici a Napoli come a Torino e altrove. Anche da essa, presa a modello piuttosto facile, gli autori eliminano le contraddizioni forti, i cadaveri nell'armadio, la persistente malattia e chiusura che ha reso immortale il grido del giovane Gide, "famiglie, vi odio!". Qui invece "chiuso è bello". Il film di Scola è, beninteso, un film conservatore, non un film reazionario - se ancora queste distinzi0ni hanno senso, vista la perdita di senso della loro alternativa, il film "progressista". Ma lo è forse più del dovuto, e finisce per dare della nostra maggiore forza-debolezza nazionale un'immagine consolante, appena malinconica. BibliotecaGino Bianco Vorrebbe farci piacere, come il signor Cupiello al figlio ribelle, "il presepio". Film professionale, Melò di Alain Resnais lo è senza dubbio. La qualità è un feticcio del cinema francese - gli resta più poco oltre a quella, non poi così frequente - ma non direi che questo splendido esercizio d'intelligenza professionale e artistica sia un film di grande portata. Pesa su di lui l'occasione da cui nasce. Nel mezzo della difficile preparazione di un film fatto scrivere a Kundera, Resnais si è "riposato" con un film di basso costo, tutto d'interni (o quasi), e con pochissimi attori, gli stessi di L 'amour à mori ma, per fortuna, con la Ardant in secondo piano e la Azéma al proscenico. Si tratta di un omaggio a Bernstein, un commediografo a suo tempo celeberrimo anche da noi ma assente da tutte le scene da molti, molti anni. Teatro borghese, teatro da boulevard. Di solida fattura, su temi a volte molte impegnativi: ricordiamo, per inciso, di Bernstein una commedia, lsrael, con la quale egli - famosissimo e odiatissimo - si prese le sue vendette sulle campagne razziste di cui era periodicamente oggetto mettendo in scena un politico antisemita militante che scopre di essere figlio illegittimo di un ebreo. Il teatro borghese è tornato di moda, ma non è che Resnais sacrifichi alla moda: ha sempre rivendicato la sua natura di intellettuale borghese, e il suo amore per una cultura che le av;mguardie vituperano. Paradosso non piccolo: scopriamo vedendo Melò quanto di Bernstein potesse già stare dietro agli "avanguardistici" Hiroshima, man amour (Duras/Resnais) o a Marienhad (Robbe-Grillet/Resnais), e se ne illumina la nostra valutazione di quei primi film. Ma scopriamo anche quanto profondamente avesse agito, negli anni Venti e Trenta, sul teatro borghese europeo, un certo Pirandello: non solo su seguaci, oggi forse infrequentabile come Lenormand o Gantillon ecc., quaoto sul teatro detto di boulevard. La stessa messa inscena di Melò, così "datata", ci ha ricordato le messe in scene dei Giovani, Melò di Alain Resnais. non troppi anni addietro, di certo Pirandello minore: molto art déco, e con la stessa splendida capacità di "recitare" in modo inconsueto e anche, al nostro occhio, fasullo, dei drammi veri. La borghesia anch'essa soffriva (oggi no perché non c'è più) e la ritualità delle apparenze non ne ha mai del tutto soffocato l'insoddisfazione dell'essere. Resnais ha giocato, con raffinatezza ammirevole, il gioco del kammerspiel in piena luce, e dietro tanta falsità ci ha portato al cuore di un dramma pur vero. Ma basterebbe fare il confronto con Gertrud di Dreyer per scoprire come, con i derivati di Ibsen prima di Pirandello, ci si potesse già spingere molto più oltre, non accettando la ormai banale dialettica apparire-essere (borghese) e volendo invece portare a quella piu adulta (e meno borghese) del suo superamento: del rifiuto delle apparenze, e della necessità della scelta, ad ogni costo. La professionalità di Platoon (come del precedente film di questo mattone che si chiama Stone, Salvador) è anch'essa indubbia a suo modo, stavolta, americanamente grandiosa. Niente di casalingo, di interni, di famigliare, di borghese, di minimale: il massimo, anzi, e la Storia con tutte le sue trombe. Ma Stone, regista di grandissime doti tecniche e di energica capacità quasi documentaria di cogliere in movimento un ambiente, un'atmosfera, un contesto, è peggio che un cane quando deve far uscire i suoi personaggi dal magma delle folle o dei ceti e farne emblemi, o più semplicemente appena personaggi. Viene allora alla luce un'imbecillità doviziosa e magniloquente, una falsa coscienza confusionaria e opportunistica che negano ogni sostanza allo sfondo, o al limite, come qui accade, finiscono per contrapporglisi. Se le scene d'azione, d'insieme, senza dialoghi e attori o con solo ombre e mugugni, non sono indegne di grandi esempi (All'ovest niente di nuovo di Milestone, per esempio, o Prima linea di Aldrich), le scene recitate fanno semplicemente orrore, per la loro stupidità e rozzezza. E i dialoghi poi! Dio - e i morti del Vietnam -
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