dal professionista ics o per il saggio accademico che leggeranno i poveri studenti obbligati ad adottarlo? Questo è un discorso paradossale, però non troppo. Credo che il tanto di verità che bisogna pescarvi sia che non si ha o non si dovrebbe avere il diritto di scrivere e pubblicare cose superflue, non utili davvero a qualcosa, anche a rischio di essere meno famosi e meno ricchi. Nella società in cui viviamo, che come tutti sappiamo è tra le più ricche del mondo, alla ricchezza non corrisponde affatto un uso razionale di essa, un uso, per esempio, che pensi anche al futuro e non solo all'immediato. L'industria editoriale, nella quale tanti di noi per un verso e per l'altro operano, risponde non soltanto alla regola per cui i soldi servono alla produzione di nuovi soldi (oppure, a un corollario da stato assistenziale che vuole che i soldi vadano sprecati, in modo più o meno politicamente e socialmente calcolato e •finalizzato) ma anche a quella per cui nella società contemporanea il ruolo dei mezzi di comunicazione di massa e dei funzionari intellettuali che vi operano è sempre più importante e sempre più indirizzato a uno scopo assolutamente centrale: quello della formazione e della riproduzione del consenso. E credo che le beghe, le insofferenze, le lotte intestine così forti all'interno di quest'industria (anche se in quella dedita alla produzione libraria molto secondarie rispetto a quelle che avvengono nel settore dei quotidiani e delle tv) siano comunque beghe, insofferenze, lotte interne a una corporazione che non sembra mai mettere in discussione il proprio ruolo e la propria funzione. Da tutto questo, si potrebbe far derivare la conclusione che se i "messaggi" che l'industria culturale è chiamata a emettere, e di fatto ossessivamente emette, sono quelli del consumo e del consenso, l'alternativa dovrebbe essere quella dell'austerità e del dissenso. So bene che pochi tra di noi si sentirebbero di aderire a quest'alternativa, e se ci insisto è perché sono convinto che solo allargando un po' lo sguardo, si possa, dopo, tornare sulla terra, ai problemi per esempio dei "nuovi editori degli anni '80" e avere qualche idea su quale potrebbe essere la loro funzione, in rapporto alla funzione svolta dai "grandi". A me personalmente un aspetto sta a cuore più di altri e non lo vedo molto rappresentato nei cataloghi e nei progetti dei nuovi editori: quello di un rapporto attivo con l'oggi, di trasmissione di conoscenze e informazioni e di provocazione e proposta, che tenga meno conto, per esempio, della facile politica del repechage, e cerchi e selezioni il davvero nuovo e quando si rivolge al "vecchio" vada semmai a ripescare ciò che gli altri - non solo gli editori, anche l'università, anche i giornali - in qualche modo oggi sono portati a censurare. BibliotecaGino Bianco Faccio un solo esempio, che mi pare però significativo e chiarificatore: sull'ultimo numero di "Linea d'Ombra" abbiamo pubblicato una lunga e bellissima intervista con il filosofo tedesco Giinther Anders. Anders cominciava a essere conosciuto in Italia agli inizi degli anni Sessanta, grazie ai suoi saggi sul mondo contemporaneo che dopo Auschwitz e Hiroshima non poteva più, egli diceva, venir analizzato con i soliti metri. Poi il '68 e la politicizzazione degli anni successivi hanno del tutto trascurato lui come altri pensatori, a favore di cose che sembravano più urgenti e di pensatori con ricette forse più facili e consolatorie. La generazione del '68 e l'editoria in cui si esprimeva o che la corteggiava ha certo operato delle censure - alcune delle quali ci sono state rimproverate con molta baldanza da certuni, mentre quelle più gravi, come per esempio Anders, non ce le ha rimproverate nessuno. Oggi una censura di fatto avviene nella cultura italiana nei confronti di quel pensiero più radicale che può mettere davvero in discussione le nostre facili e comode convinzioni e il nostro conformismo, a favore di due modelli intellettuali maggiori - all'interno dei quali, beninteso, ci sono autori egregi e opere egregie - che non troppo esagerando definirei con Edoarda Masi come quello dei "pubblicitari" (di questo ordine di cose, il migliore possibile, l'unico possibile) e dei "mistici" più a buon mercato, dei mistici da quotidiano. Senza dimenticare, compromessi sempre di più con la prima categoria, i bonzi dell'accademia. Molti di voi sicuramente stanno pensando che sto andando "fuori tema". Torniamo dunque alla piccola editoria, la sola sulla quale io credo si possa fare qualche affidamento per un qualche rinnovamento, per una qualche ventata di aria fresca nella molto conformista cultura italiana contemporanea. Dalla grande e dalla media che cosa ci si può aspettare di non scontato? Davvero poco. Certo, i soldi contano, e coi soldi si possono fare tante cose, per esempio comprare autori e diritti di libri anche belli e non solo di successo, quando diventano di moda. Ma credo che ci siano da mettere in conto anche l'elefantiasi burocratica, l'obbligo del grosso guadagno, le pastoie delle pubblic relations, la fine delle discussioni redazionali sulle ragioni delle scelte di questo o di quel libro (dove se ne fanno più? che io sappia in nessuna casa editrice, perché anche se in una o due questa tradizione è ogni tanto rispettata le scelte sono già state fatte a monte da direttori editoriali e direttori amministrativi onnipossenti e tremendamente sicuri della propria scienza). Mi si permetta in proposito un inciso: nell'editoria come in ogni altro ramo professionale si parla spesso con entusiasmo o con cattiveria di questo o quel super redattore o direttore, e delle sue mirabolanti capacità. Non ci credo. Con i soldi a disposizione, la possibilità di scegliersi consulenti ben pagati e di alto livello nei vari campi, la possibilità di viaggiare, un catalogo a disposizione, l'abbonamento a una mezza dozzina di riviste internazionali, un salto a Francoforte e una telefonata a Linder, l'attenzione alle cifre di vendita e chiacchiere assidue con i librai, non è difficile diventare dei grandi redattori. Tanto più che, nonostante molti abbiano goduto e godano di queste condizioni, non è poi che le scelte siano straordinarie, i successi così vistosi, e i best-seller così numerosi ... Tutte le cose che ho elencato fanno sì che dai grandi editori - e dai medi, ancorati al delicato spazio che si sono conquistato, e sempre così titubanti, così opportunisti o infine così scialbi - non si possa, ripeto, aspettarsi certo il nuovo e il non superfluo. Anzi, la loro ragion d'essere sembra essere sempre di più quella di offrire per almeno il 70, 1'80 per cento della loro produzione, per l'appunto il superfluo. Ed è quello che i piccoli editori dovrebbero cercare di fare il meno possibile, al massimo invertendo l'ordine delle grandezze: il 20% di superfluo, se aiuta a sopravvivere, a vendere, a creare contatti utili, ma per il resto, ricerca e proposta nei campi in cui si è scelto di intervenire, dell'essenziale. Sappiamo tutti bene che non è così, che questa è un'invocazione ideale, ma cerchiamo almeno di non dimenticarla. Cosa succede, nella realtà? Succedono molte cose non sempre entusiasmanti. Succede che l'Italia è un paese ricco e spesso è più ricca la provincia che non le grandi città, da un lato, e dall'altro che è ancora ben forte lo stato assistenziale, con tutto il suo corredo di logiche più o meno clientelari. Da queste due sorgenti è possibile abbeverarsi, e l'alleanza - che so - di uno o più intellettuali con un figlio di ricchi (ma spesso il figlio di ricchi è già da sé intellettuale) o il fatto che un gruppetto di ex sessantottini o settantasettini che hanno preso,gusto a una certa libertà d'iniziativa e sanno spostare altrove le capacità imprenditoriali acquisite nel passato militantismo burocratico, sappiano gestire i loro rapporti con gli enti locali - comune, regione, provincia - e con i partiti, magari anche con le banche, porta spesso ali 'invenzione e fondazione di una casa editrice. Non si sa di quale durata, ma in grado di realizzare un certo numero di libri calibrando con maggiore o minore abilità quelli condizionati dai finanziatori (storia locale, o libri adottabili) e quelli che piacciono al neo-editore e ai suoi amici, in genere allievi di questo o quel luminare e influenzati dalle sue idee, o viaggiatori accaniti tra la loro provincia e Londra, Parigi, New York, e magari con in casa gli scaffali pieni di libri di Einaudi, i più vecchi, e di libri Adelphi, i più giovani, ma con un occhio alla Sellerio, ammirato caso di un successo raggiunto da una
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